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Viaggio in Sikkim: dalle prime spedizioni himalayane ad oggi

Viaggio in Sikkim: dalle prime spedizioni himalayane ad oggi 1024 682 Sonia Sgarella

Chi di voi saprebbe dirmi, ad occhi chiusi e senza pensarci troppo, dove si trova il Sikkim? Appassionati di montagna, di alpinismo e soprattutto di Himalaismo, questa è la vostra occasione per ripercorrere in pochi minuti una storia che durò degli anni; una storia fatta di dedizione, quasi devozione e di passione ai limiti della ragione; una storia affascinante – la definirono una pseudo favola d’amore – che costò però la vita – e se lo ricordano forse meglio gli inglesi – a due leggendari esploratori, George Mallory e Andrew Irvine, i precursori di quella che trent’anni dopo si sarebbe trasformata in una vera e propria guerra delle bandiere per la conquista delle vette più alte del pianeta.

Va da sé ricordare che nel gennaio del 1921, quando l’allora presidente della Royal Geographical Society di Londra, Francis Younghusband, comunicò ufficialmente che intendeva inviare una spedizione all’Everest, il versante nepalese non costituiva un’opzione accessibile. Uno degli ultimi “regni proibiti”- è così che veniva chiamata la monarchia assoluta nepalese – che non permetteva a nessuno di entrare. Restrizioni che il governo inglese – di stanza in India – aveva preso l’accordo di rispettare.

I preparativi a Kathmandu e la risalita della Valle del Khumbu sono quindi storia moderna, per non parlare ovviamente dell’aeroporto di Lukla che risale sì e no all’altro ieri. Per la cronaca, fu solo nel 1951 che il governo nepalese decise di aprire le sue frontiere al mondo esterno e, con questo, anche di rendere accessibili i versanti delle sue montagne imperiose. Da quel momento divennero disponibili all’attacco da parte di tutte quelle spedizioni che ancora sognavano di raggiungerne per prime le vette.

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E nonostante i primi tentativi, tra tutte quelle montagne inviolate rimaneva ancora lei, l’Everest, conosciuta localmente con il nome di Sagarmatha. Purtroppo per Mallory ed Irvine, seppur l’ipotesi rimanga ancora un’opzione, non è stato ad oggi possibile dimostrare che furono proprio loro, per primi, a raggiungerne la sommità, perdendo la vita in fase di discesa. Pensate, il corpo di Mallory venne ritrovato da una spedizione recatasi sull’Everest appositamente a quello scopo, soltanto nel 1999, a quota 8.200 metri. Erano passati 75 anni dalla sua morte.

Ma dunque – e qui per concludere arriviamo al punto – se il Nepal non era accessibile ai tempi delle prime puntate all’Everest (1921,1922 e 1924), da dove si passava? Dai porti delle coste indiane al Tibet la strada era ben lunga, il treno arrivava giusto ai primi baluardi delle montagne ed è proprio qui che le cronache del tempo ci raccontano di un altro antico regno chiamato Sikkim – oggi un piccolo e remoto angolo d’India – che costituiva l’unica via di accesso possibile alle terre aride dell’altopiano tibetano. Mallory lo descriveva come una giungla e ne decantava le valli fiorite, tappezzate di rododendri dai mille colori, da orchidee e da altri fiori mai visti prima.

 Darjeeling - Rhododendron

In treno si arrivava a Darjeeling – che io continuo a sostenere essere una delle cittadine più affascinanti di tutta l’India – ed era da lì che partivano quindi le carovane di uomini e animali da soma cariche di viveri e materiali per le spedizioni. Si proseguiva quindi a piedi per Gangtok – oggi la piccola capitale del Sikkim – e da lì verso i passi orientali del Jelep La e del Nothu La, ai confini col Tibet, per quindi  incominciare la lunga marcia verso le pendici di quella montagna tanto bramata. Il viaggio durava all’incirca quattro o cinque settimane, che si sommavano quindi ad un mese di traversata via mare. Facile oggi per noi sentirci esploratori vero?

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A distanza di cent’anni sarebbe un miracolo se il Sikkim non fosse cambiato. Alcuni dei sentieri ovviamente sono diventate strade, i distretti meridionali si sono alquanto urbanizzati e anche la fede, per lo più buddhista, sta subendo i contraccolpi di quel consumismo sfrenato che piano piano raggiunge anche i luoghi più remoti del pianeta.

Ma il Sikkim continua comunque ad affascinare: il 35% del paese è occupato dal Parco Nazionale del Kangchenjunga, la terza montagna più alta del mondo (8.586 m.). Immaginate quando nel 1899 Vittorio Sella ne effettuò il primo periplo, scattando delle foto emblematiche che furono documenti fondamentali per  un primo – purtroppo fallito – tentativo alla vetta del 1905, a cui partecipò anche il giovane Rigo de Righi.

Kangchenjunga

I rododendri e tantissime altre specie di flora continuano a sbocciare nei mesi di aprile e maggio e a trasformarne le valli – tra cui quella di Yumthang – in un tappeto colorato di fiori; i distretti nord e ovest del paese, punteggiati di laghi color cobalto, rimangono ancora meta prediletta per gli amanti del trekking mentre i monasteri perpetuano la loro attività di custodi della fede e continuano ad incantare per la pace che trasmettono. E’ inoltre curioso sapere che il Sikkim, uno tra gli stati meno indiani dell’India (l’altro è il Ladakh), è il primo ad avere adottato una politica agricola al 100% biologica.

India - Sikkim - Pelling - Pemayangtse Monastery

Se dunque vi fosse venuta voglia di prendere e partire, che cosa fare oggi in Sikkim? Che cosa è rimasto da vedere e come arrivare? Ve lo racconto qui di seguito…

1. Come arrivare, permessi e spostamenti

Per viaggiare in Sikkim è necessario munirsi di un permesso speciale da allegare al visto indiano facendone richiesta presso Ambasciate, Consolati e Missioni indiane in Italia, oppure, direttamente in India presso il Sikkim Tourism Office di Delhi e Calcutta o presso il District Magistrates Office di Darjeeling e Siliguri. La procedura in India è immediata (in Italia segue i tempi di rilascio del visto) e non comporta nessun costo aggiuntivo. Il permesso ha una durata di 30 giorni. Per la richiesta è necessario presentare due foto tessera, copia del passaporto e del visto indiano.

Non essendoci ferrovie che collegano il Sikkim al resto dell’India, l’unico modo per varcarne i confini è con autobus o – opzione più pratica e consigliata – con jeep. L’aeroporto più vicino è quello di Bagdogra mentre le stazioni dei treni di riferimento sono quelli di Siliguri e New Jalpaiguri, tutte e tre le strutture situate nello stato confinante del Bengala, rispettivamente a 123, 114 e 125 km di distanza da Gangtok. Le jeep condivise le si trova presso l’SNT Bus Stand di Siliguri e la corsa per Gangtok (circa 4 ore) ha un costo di 250 Rupie. Le jeep partono quando si riempiono.

Anche all’interno dello stesso Sikkim, per visitare le zone più remote, ovvero quelle che si estendono verso i confini della nazione, nonché per tutto il comparto trekking, non solo è necessario ottenere un Protected Area Permit rilasciato dal Department of Tourism di Gangtok, ma è anche obbligatoria l’organizzazione tramite agenzia registrata. I trekking inoltre sono consentiti solo per gruppi di minimo due persone.

2. Gangtok e dintorni: cosa vedere

Gangtok, situata a circa 1.600 metri, è la capitale del piccolo stato del Sikkim e, in quanto tale, anche la cittadina attorno alla quale ruota il grosso della vita culturale e turistica del paese. Come tutte le stazioni climatiche indiane, si sviluppa su più livelli ma il fulcro delle attività commerciali e nonché la zona di passeggio preferita sia dai locali che dai turisti, è la pedonale MG Road, inconfondibile per la tinta degli edifici che la costeggiano, tutti color verdino.

India - Sikkim - Gangtok

Nei dintorni del centro cittadino, esattamente nel quartiere Deorali e nei pressi della discutibilmente pittoresca cabinovia, merita sicuramente una visita il Namgyal Institute of Tibetology, istituito nel 1958 e ad oggi uno dei principali centri di ricerca e studio della cultura tibetana in tutte le sue declinazioni. All’interno del museo è custodita una piccola ma interessante ed esplicativa collezione di artefatti e oggettistica rituale buddhista e lo stesso edificio costituisce inoltre un esempio ben conservato di architettura del Sikkim. Il costo del biglietto è di 20 Rupie.  Aperto dalle 10 alle 16, chiuso la domenica.

India - Sikkim - Gangtok

Da Deorali, con una corsa in taxi condiviso di circa mezz’ora, è possibile poi raggiungere il Monastero di Rumtek (se il taxi è diretto a Ranipool fatevi lasciare lungo la National Highway al bivio per Rumtek – all’altezza del Myfair Spa Resort – e cambiate mezzo), il più grande e importate di tutto il Sikkim, appartenente alla setta dei Karma Kagyu, i cosiddetti “berretti neri” del buddhismo tibetano. Il monastero venne originariamente fondato nella seconda metà del XVIII secolo per opera del IX Karmapa (” abate”), abbandonato poi per un certo periodo e quindi rimesso in splendore nel 1959 dal XVI Karmapa qui rifugiatosi in esilio dal Tibet.

India - Sikkim - Monastero di Rumtek

In quanto a punti panoramici, il migliore da cui godere di ottime viste sulla valle, è certamente il Ganesh Tok, un piccolo tempio dedicato alla divinità induista con la testa d’elefante, a sei chilometri dalla MG Road e sito accanto all’ingresso dell’Himalyan Zoological Park, all’interno del quale potrete ammirare il piccolo Panda Rosso, l’animale nazionale del Sikkim. Per arrivarci potete prendere un taxi al costo di un centinaio di Rupie solo andata, oppure farvi una bella camminata passando dall’Enchey Monastery.

India - Darjeeling - Red Panda

Il mio consiglio sul dove dormire a Gangtok è il Zero to One Stay Khandroling, purchè si tratti di una stanza con vista Kangchenjunga, mentre per quanto riguarda il mangiare ottimo è il ristorante di cucina indiana Apna Dhaba (dalla MG Road, venendo dal Tourist Office, prendete il vicoletto a destra all’altezza del mezzo busto di Gandhi) e Taste of Tibet, sempre sulla strada pedonale. I bancomat SBI sono i migliori per prelevare e rilasciano al massimo 10.000 Rupie.

3. Trekking!

Metto il trekking subito dopo Gangtok e prima delle altre destinazioni per il semplice motivo che, qualora doveste optare per uno dei vari itinerari percorribili a piedi nel paese, è probabile che ne tornereste talmente appagati e stanchi, da non voler esplorare nient’altro. Parola d’ordine, di nuovo, Kangchenjunga! Nel distretto occidentale del Sikkim gli amanti dei trekking di più giorni – stiamo parlando anche di dieci – troveranno pane per i loro denti. Attenzione però, sappiate che qui non si parla assolutamente di lodge e tea houses come è invece il caso del Nepal: in Sikkim si va in tenda ed è quindi importante scegliere il momento giusto e augurarsi che il tempo regga! Le stagioni consigliate sono quella primaverile (da marzo a maggio) e quella autunnale (da settembre a novembre).

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Kangchenjunga

Tra i trekking più gettonati vi è sicuramente il Goecha La Trek, che raggiunge i quasi 5.000 metri del passo Goecha La, ai piedi del Kangchenjunga o la versione un po’ più bassa dello Dzongri Trek, che raggiunge circa i 4.000; nel nord-est del paese un’altra possibilità è invece l’ancora più lungo Green Lake Trek. Un’opzione diversa, che si discosta da questi tre sia in termini di difficoltà e durata che di interesse paesaggistico è il mini trekking di due giorni al Barsey Rhododendron Sanctuary, ai confini sud occidentali dello stato, da scegliere ovviamente nella stagione delle fioriture.

4. Valle dello Yumthang: il paradiso dei fiori

Ebbene ragazzi io la valle me la sono saltata a piè pari e questo per tre motivi fondamentali: perché ero reduce da un trekking al Campo Base Everest di due settimane e di valli ne avevo viste certamente abbastanza, perché a livello di salute stavo ancora riprendendomi da vari malanni e perché a novembre è sicuro che di fioriture ne avrei viste ben poche. Detto questo, le foto scattate nei mesi di aprile e maggio dei rododendri in fiore sono a dir poco spettacolari, così come quelle scattate a giugno dei pendii verdi completamente coperti di fiori dai mille colori e dunque, se mi trovassi da quelle parti nella stagione giusta, di certo non ci penserei due volte ad organizzare una visita. La valle può essere raggiunta in jeep con un tour di 2 notti e 3 giorni, pernottando a Lachung.

5. Pelling e dintorni: cosa vedere

Il piccolo borgo di Pelling, situato nel distretto del Sikkim Occidentale con capoluogo a Gyalzing, è il punto più vicino da cui poter ammirare il Kangchenjunga, salvo l’opzione trekking di cui abbiamo parlato prima. Da Gangtok vi servirà prima salire a bordo di una jeep per Gyalzing (250 Rupie) e da lì su un taxi condiviso per Pelling (50 Rupie per 4 persone). Mettete in conto circa 3 ore.

India - Sikkim - Pelling

Tra le attrattive della zona vi sono il Monastero di Pemayangtse, 2 km prima di Pelling lungo la strada principale e il Sanga Choeling Monastery, all’altro estremo del villaggio, con accanto la statua gigante di Chenrezig e la passerella trasparente con vista Kangchenjunga. Queste ultime, la pataccate del secolo, sono state inaugurate a novembre del 2018, mentre i due monasteri risalgono al XVIII secolo. Entrambi possono essere raggiunti a piedi rispettivamente in 20  e 40 minuti. Il secondo percorso, quello verso la statua gigante è quasi tutto in salita. I biglietti d’ingresso costano 50 Rupie l’uno.

India - Sikkim - Pelling

Per quanto riguarda il pernottamento l’Hotel Garuda è sicuramente l’opzione migliore, situato accanto alla fermata dei taxi e con vista Kangchenjunga. I pasti li potrete consumare direttamente nella struttura anche perché il paesello non offre molto altro.

Viaggio in Ladakh: benvenuti in paradiso

Viaggio in Ladakh: benvenuti in paradiso 2000 1333 Sonia Sgarella

Ho viaggiato per giorni respirando la polvere di un deserto ad alta quota pensando che in fondo alla strada potesse esserci solo la fine del mondo; immaginavo ad un certo punto un cartello con la scritta “spiacenti, la Terra finisce qui” e che da lì saremmo dovuti tornare indietro; ma la strada di fatto continuava, in direzione di un paradiso in Terra: Ladakh, mon amour!

Credetemi, ancora oggi, a distanza di tanti anni da quando ci misi piede per la prima volta (nel lontano 2009) e nonostante i vari (molti) paesi visitati nel frattempo – la maggior parte dei quali ovviamente meravigliosi – resto ancora della stessa opinione: il Ladakh, per bellezza e particolarità, li supera tutti ed è uno di quelli che più mi è rimasto nel cuore!

Situato nell’estremo nord dell’India ai confini con la Cina e con il Pakistan e amministrativamente incluso nello stato federato del Jammu & Kashmir (di cui ne costituisce un distretto), il Ladakh, incastonato e protetto tra le maestose catene montuose del Karakorum e dell’Himalaya in un territorio che si sviluppa dai 3.000 agli oltre 6.000 metri d’altezza, è uno tra gli angoli di mondo più suggestivi e surreali che io abbia mai visto.

Ad un passo dal cielo, in quel deserto d’alta quota punteggiato di cime innevate, è lì che si nascondono oasi di pace dal fascino immutato nel tempo. Piccoli mondi remoti in cui le principali scuole del buddhismo tibetano trovano rifugio ed ispirazione.  Seppur a distanza di secoli dalla loro fondazione, qui si praticano ancora invariati i rituali della fede, all’interno di monasteri che incantano e stupiscono per la loro bellezza, quasi fossero una sorta di miraggio.

Viaggiare in Ladakh significa lasciarsi trasportare indietro nel tempo in un mondo sospeso tra la terra e il cielo e in una regione a maggioranza buddhista che costituiva un tempo la parte più occidentale del Tibet e luogo in cui ancora oggi le antiche tradizioni religiose vengono scrupolosamente tramandate da padre a figlio e da maestro a discepolo. Spiritualità e religiosità – lo noterete appena atterrati a Leh – influenzano ogni aspetto della vita quotidiana, lì dove il riconosciuto rispetto per la vita e per la terra vogliono essere di insegnamento non solo ai loro più prossimi vicini ma a tutti coloro che qui si recano in visita.

Il periodo migliore per un viaggio in Ladakh è quello che corrisponde all’incirca con la nostra estate, da maggio a settembre, quando lo scioglimento delle nevi permette la riapertura delle uniche strade carrozzabili che connettono Leh, il capoluogo, con il resto dell’India e più precisamente con Manali, in Himachal Pradesh, e con Srinagar, in Kashmir. I collegamenti aerei con Delhi rimangono attivi tutto l’anno ma un viaggio in Ladakh in inverno richiederebbe sicuramente maggiore pianificazione e adattamento.

Leh, una piacevole cittadina di circa 27.000 abitanti che sorge ad un’altezza di 3.486 metri, costituisce la base e il luogo di partenza per tutti gli spostamenti. Cominciando da lì il modo più sensato per esplorare il Ladakh è quello di muoversi in direzione dei quattro punti cardinali, esplorandone le valli circostanti e superando gli altri passi ma facendo sempre ritorno al punto di partenza. In una dozzina di giorni è possibile scoprire non solo i punti principali, bensì anche alcuni degli angoli più nascosti di questa regione meravigliosa, sorta sulle sponde del leggendario fiume Indo, che diede nome alla nazione intera e che regala acqua ad una terra altrimenti arida.

E sarà proprio risalendo il corso di questo fiume maestoso (che nasce in Tibet, attraversa l’India e finisce in Pakistan), che si parte allora in direzione sud-est, seguendone la riva sinistra, per arrivare inizialmente al luogo in cui sorge l’ultima dimora dei re ladakhi, costruita nel 1825 sul modello del palazzo-fortezza di Leh, ormai abbandonato. Si tratta dello Stok Khar, dove ancora oggi risiedono i discendenti della famiglia reale e al cui interno, nell’interessante museo, viene conservato un pezzo di storia del paese.

Proseguendo lungo la strada nella piana desolata, seguono poi il monastero di Matho e quindi già quello di Hemis, il più grande e ricco del Ladakh facente capo alla scuola dei monaci Drukpa, i cosiddetti “berretti rossi”, la cui filosofia trova fondamento nel pensiero degli yogi Tilopa, Naropa, Marpa e Milarepa, quest’ultimo il massimo poeta che il Tibet abbia mai avuto. Ogni anno, tra maggio e luglio, il monastero di Hemis si prepara ad ospitare il festival più famoso della regione himalayana. Pellegrini provenienti da ogni angolo del paese e vestiti degli abiti tradizionali migliori, si riuniscono nel cortile principale del Gompa per assistere ai due giorni di celebrazioni volti a rievocare la vita e gli insegnamenti di Guru Rimpoche nel giorno della sua nascita.

Conosciuto anche con il nome sanscrito di Padmasambhava (“il nato dal loto”), Guru Rimpoche è considerato dalla tradizione il fondatore del buddhismo tibetano e colui che ne ha permesso la diffusone. Due giorni di danze scandite dal ritmo intenso di cimbali, trombe e tamburi; un momento di ritrovo e di divertimento ma soprattutto un’occasione per il popolo di entrare in contatto con la vita e la parola del grande maestro, che gli abitanti percepiscono presente all’evento insieme a loro.

Un’importante opportunità per apprendere i contenuti essenziali del suo insegnamento attraverso uno strumento accessibile a tutti. La danza è infatti il mezzo offerto dai monaci residenti ai fedeli per aiutarli a percepire l’essenza della dottrina e dargli uno stimolo per approfondire in seguito la propria ricerca personale. In occasione di tale evento non sarà difficile farsi trasportare dal coinvolgimento collettivo. Sono tutti presenti, grandi e piccini, uomini e donne, monaci e laici, perché la sola partecipazione, si dice, predisporrà le condizioni karmiche che favoriranno il raggiungimento più veloce della liberazione, ovvero del Nirvana.

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Ripartendo di nuovo da Leh, sempre in direzione sud-est ma passando questa volta alla riva destra dell’Indo, si susseguono invece il palazzo di Shey, il monastero di Thiksey e quello di Stakna, il secondo dei quali rappresenta l’apice di straordinarietà per quel che riguarda l’architettura degli edifici monastici. Appartenente all’ordine riformato dei monaci Gelug-pa, ovvero dei “berretti gialli” (a cui fa capo Sua Santità il XIV Dalai Lama), il monastero custodisce un’immensa statua di Maitreya (il Buddha del futuro), un tempio dedicato a Tara  (divinità femminile) e notevoli esempi di arte tantrica affrescati sulle pareti interne del Dukang, la sala della preghiera.

Ogni mattina intorno alle 7 i monaci del monastero di Thiksey richiamano i fedeli alla preghiera per mezzo di tradizionali strumenti musicali e si riuniscono per la recita dei versi sacri. Un momento davvero speciale a cui assistere in assorto silenzio, respirando quell’aria di spiritualità che rende il Ladakh un luogo così magico e speciale!

Proseguendo ora lungo la valle e prendendo la deviazione verso il Lago di Pangong – addentrandosi quindi nella valle di Sakti – ecco apparire il sorprendente monastero di Chemrey, costruito nei primi anni del XVII secolo e dipendente tuttora da quello di Hemis. A guardarlo non crederete ai vostri occhi per quanto è bello! Poco più in là, all’estremità settentrionale della valle, il monastero di Tagthog, appartenente all’ordine Nyingma e costruito nei pressi della grotta dove avrebbe meditato Guru Padmasambhava.

Superato il Passo di Chang, a 5.320 metri, arriviamo dunque al Lago di Pangong, in un’ambiente d’alta quota incredibile dove il turchese dell’acqua e quello del cielo, il bianco candido delle nuvole e i colori di una spettacolare natura desertica d’alta montagna si incontrano e si fondono: una visione fantastica, lì, ad un passo dal cielo, dove solo una mente divina potrebbe aver concepito cotanta inimmaginabile bellezza! Il Pangong Tso è un lago salato, quello di maggiore estensione in tutta la catena dell’Himalaya, sito ad un’altezza di circa 4.250 metri, lungo 134 km, largo al massimo 5 km ed incluso per 2/3 in territorio tibetano.

A fare a gara con il Lago di Pangong per bellezza vi è poi anche quello di Tso Moriri, sito a 4.600 metri d’altezza, 240 chilometri a sud-est di Leh e già sulla strada che collega il Ladakh a Manali. Il lago, così come quello di Pangong, può essere raggiunto solo nei mesi estivi e previo rilascio di un permesso che ne limita l’accesso su base annuale. Arrivare nella zona di entrambi i laghi significa attraversare regioni di immenso fascino dove da millenni le popolazioni nomadi vivono nel silenzio di paesaggi grandiosi e infiniti, dedite all’allevamento degli yak e delle capre pashmina.

Ma passiamo ora a nord di Leh per superare il leggendario passo del Khardung La, a 5.359 metri – il valico carrabile più alto del mondo – e raggiungiamo quindi le Valli dei fiumi Shyok e Nubra, un tempo remoti avamposti lungo la via della seta e dove, oltre ai monasteri di Diskit e Sumur, si nascondo luoghi di romitaggio e laghi incantati. Qui, al cospetto delle prime vette della catena del Karakorum, è possibile incontrare i famosi cammelli della Battriana. Dalle nevi perenni del Karakorum alle dune di sabbia della Val di Nubra quindi. Tutto in un giorno. Succede solo in Ladakh!

Infine ad ovest di Leh, passato il monastero di Spituk e in direzione di quello di Lamayuru, incontriamo una profusione di luoghi sacri e capolavori d’arte indo-kashmira: il monastero di Phyang, quello di Likir e di Alchi, quest’ultimo risalente al X secolo e che conserva tre gigantesche statue rappresentanti Avalokiteshvara, Maitreya e Manjushri, la triade più famosa del lamaismo. Da Likir è possibile partire a piedi per un semplice itinerario di trekking della durata di tre giorni e due notti, passando dagli insediamenti di Yangthang ed Hemis Shukpachan e terminando quindi a Lamayuru.

Che dite, pensate che valga la pena di spiccare il volo verso il Ladakh? Sappiate che siete ancora in tempo! La bella stagione è più vicina di quanto sembri, la neve sugli alti passi si scioglierà presto e il Ladakh tornerà  a connettersi al mondo dopo il lungo inverno. Come un fiore sboccia, un fiore raro del deserto: Ladakh, mon amour!


Qualche informazione sulla cucina…

Basata su prodotti cerealicoli e pochi vegetali la cucina del Ladakh, decisamente frugale e molto simile a quella tibetana, viene spesso affiancata dai piatti tipici della cucina indiana e kashmira.

I momo sono sicuramente il piatto più apprezzato dai palati occidentali: ravioli fatti di farina d’orzo, ripieni con carne o verdure e cotti al vapore, una ricetta tipica delle regioni himalayane. Una variante della stessa vuole che i momo possano anche essere fritti.

A Leh, un ottimo ristorante dove provarne un’ampia varietà è il Tibetan Kitchen, un locale pulito e confortevole e che vanta oltretutto un impeccabile servizio. Un ristorante dove ritornare più volte nell’arco del vostro soggiorno, a pranzo o a cena, sicuri che non ne rimarrete mai delusi!

Un altro piatto tipico della tradizione tibetana è la thukpa, una zuppa di noodles e verdure a cui possono essere aggiunti pezzettini di carne, solitamente pollo o montone, rendendola un sostanzioso piatto unico, perfetto come pasto invernale. Una variante che al posto dei noodles utilizza dei rettangolini di pasta appiattita è chiamata thenthuk.

Il pane locale, detto tagi, più spesso e croccante del chapati indiano seppur più piccolo, viene preparato sul tawa, un disco di ferro leggermente concavo che viene scaldato su pietra. Normalmente consumato a colazione può essere accompagnato con una tazza di tè salato, una bevanda che alla maggior parte di noi occidentali, risulta a dir poco disgustosa! Immaginatevi infatti una tazza di tè a cui viene aggiunto del burro di vacca o di yak e un pizzico di sale…in sostanza la sensazione sarà quella di deglutire un denso brodo di dado!

Tornando alle prelibatezze non mancate di fare scorta di albicocche che possono essere consumate fresche, secche o sotto forma di marmellata. Oltre alle coltivazioni di grano, orzo e piselli, l’altra grande produzione del Ladakh sono infatti gli alberi da frutta tra cui albicocche, mele e noci.

E a proposito di orzo quanti di voi non hanno mai sentito parlare della tsampa? E’ l’alimento base del pasto quotidiano ladakho. Si tratta di farina d’orzo tostato, un ingrediente altamente nutritivo che può essere consumato in vari modi: aggiunto ad una tazza di tè, con dello zucchero, con il latte o con lo yogurt, oppure consumata da sola cercando di buttarla direttamente in bocca…un’impresa che riuscirà solo ai più esperti!

… e altre info utili

Il fattore altitudine potrebbe costituire un fastidioso problema se non si lascia abbastanza tempo al nostro corpo di acclimatarsi. E’ consigliabile dunque soffermarsi qualche giorno nel capoluogo e dintorni prima di avventurarvi nel superamento degli alti passi. A Leh non vi mancheranno certo le cose da fare: dalla visita dell’antico palazzo a quella dei vari monasteri sparsi per la cittadina fino ad arrivare allo Shanti Stupa da dove potrete godere di meravigliose viste sulla valle sottostante.

Nel capoluogo inoltre non sarà neanche difficile incontrare occasioni per lo shopping: mercatini tibetani, negozi di artigianato locale e di meraviglie provenienti dall’India e dal Kashmir attireranno immancabilmente la vostra attenzione invogliandovi ad acquistare di tutto.

Chi non vorrebbe possedere almeno un thangka da appendere alla propria parete di casa? Trattasi di tele dipinte con colori vivaci, di veri e propri capolavori raffiguranti nel centro la divinità oggetto di devozione. Non solo dunque qualcosa di bello ma anche di significativo e spesso didattico, come è il caso dei thangka rappresentanti la cosiddetta “ruota della vita” che ha il compito di ricordare, a chi sceglie le gioie terrene, tutto l’orrore collegato al ciclo delle rinascite. Attraverso il simbolismo e l’iconografia questi dipinti vogliono aiutare l’uomo a prendere coscienza di questa legge ineluttabile e conferirgli i mezzi affinché egli possa essere artefice del proprio destino.

Ruote della preghiera, bandierine colorate, immagini sacre e oggettistica rituale, sono inoltre tutto ciò che è legato al culto e alla pratica buddhista e che fa sempre piacere portare a casa, in ricordo di questa terra spettacolare dove la spiritualità è parte integrante della vita quotidiana.

Per i più vanitosi invece, non si può ripartire dal Ladakh senza aver prima comprato almeno un piccolo gioiello o una fantastica pashmina proveniente dal Kashmir. La lana pashmina è una pregiatissima fibra tessile che si ricava dal pelo di una particolare specie di capra allevata sulla catena montuosa dell’Himalaya. Insieme a questo tipo di scialli, alcuni meravigliosamente decorati, ne troverete altri prodotti invece con la lana di yak, il bue tibetano, simbolo incontrastato di questa incantevole terra d’alta quota ai confini col cielo.


Foto credits: Marco Puccinelli, amico viaggiatore, toscano D.O.C.

Il Treno per Darjeeling

Il Treno per Darjeeling 1024 682 Sonia Sgarella

A Darjeeling è così: c’è chi scende e c’è chi sale. Chi sale lo fa lentamente, un passo controllato dietro l’altro, per non perdere il fiato; chi scende invece va in fretta, quasi saltellando, guarda con occhi complici chi gli viene incontro nella direzione opposta, sapendo che prima o poi toccherà anche a lui risalire.

Costruita lungo un ripido crinale himalayano, Darjeeling è tutta un dislivello, un intricato dedalo di strade e ripide scalinate che metterebbero alla prova anche i polpacci più allenati. Ma è proprio questo l’aspetto che rende Darjeeling così incantevole, a buon diritto la meta più ambita del West Bengala, perché quasi da ogni angolo della città si scorgono panorami mozzafiato sulle vette che la circondano. Tra queste il Khangchenjunga che, con i suoi 8586 metri è la vetta più alta dell’India nonché la terza montagna più alta del mondo.

Darjeeling and Kanchenjunga

La mia prima volta a Darjeeling ci ho passato 5 giorni, era l’inizio di marzo del 2016 e le nuvole purtroppo ancora troppo intense per poter vedere bene le montagne ma questo non mi importava: la mia intenzione primaria era quella di arrivare fin lì per ritrovare un po’ di pace montana, quella di cui avevo bisogno dopo due mesi di India intensa, per regalarmi un po’ di tregua dal caldo della pianura e, già che c’ero, per esplorare la zona che possibilmente avrebbe costituito il mio punto di partenza per una futura visita allo stato del Sikkim. 

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La seconda volta, a novembre 2018, sono stata più fortunata: l’autunno è un periodo propizio per poter sperare in una buona visibilità delle montagne e di fatti così è stato; in tre giorni ho potuto godere di albe e tramonti da favola e di quelle viste che la volta precedente avevo solo potuto immaginare; il tutto comodamente seduta nell’accogliente salotto del Dekeling Hotel, una piacevolissima sistemazione. L’atmosfera è quella di un’accogliente casa coloniale con quel tocco di fascino che vi catapulterà indietro nel tempo, a quando la cittadina era frequentata da illustri membri della borghesia inglese.

Dekeling Hotel

Le cose da fare e da vedere in città e nei dintorni sono tante ma proprio perché ci si trova a quota 2.037 metri e spesso in salita, è meglio darsi tempo e farle con calma. Il punto di riferimento di tutti i turisti e centro nevralgico di Darjeeling è la piazza Chowrasta, nella parte alta della città, collegata alla vicina Clubside dalla via commerciale e pedonale Nehru Road. In questa zona troverete diverse altre possibilità di alloggio più economiche del Dekeling, la maggior parte concentrate lungo la Zakir-Hussain Road e vicino ai migliori posti per fare colazione, Tom & Jerry e Sonam’s Kitchen! Se vi posso consigliare evitate però la Andy’s Guest House…la vecchia padrona è peggio del Führer!

Da Chowrasta si snodano diversi percorsi che vi porteranno a scoprire i punti più interessanti di Darjeeling, primo fra tutti il tempio di Mahakala situato sulla cima di Observatory Hill. Il luogo è sorprendentemente curioso: non mi era mai capitato infatti di vedere un monaco buddhista impartire la benedizione ai fedeli induisti in un santuario dedicato alla dea Kali. Per qualche minuto mi sono fermata davanti a lui guardandolo confusa e cercando di capire in che strano luogo mi trovassi ma poi ho pensato: sono in India, è inutile farsi troppe domande! 🙂 Con la sua benedizione ho proseguito la visita di questo luogo che ho capito essere sacro a entrambe le fedi perché dove oggi si trova un tempio dedicato ad una manifestazione terrifica del dio Shiva, in precedenza sorgeva un monastero buddhista. Bandierine colorate, ruote delle preghiera, campane votive e immagini di ogni divinità possibile, sovrastano, circondano e decorano quindi i piccoli templi che punteggiano la collina e chiunque arrivi a Darjeeling, di qualunque fede, passerà da qui almeno una volta.

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Mahakala Temple - Darjeeling Mahakala Temple - Darjeeling

Distrutto prima da un’invasione di truppe nepalesi, ricostruito e poi di nuovo danneggiato da un terremoto, il Bhutia Busty Monastery, che sorgeva inizialmente sulla collina, si trova oggi ricollocato lungo la CR Das Road, a 10 minuti di cammino da Chowrasta. Approcciando la piazza tenete la destra e quindi prendete la prima ripida discesa, poi continuate finché non lo vedrete apparire. Se la visibilità è buona il Khangchenjunga gli farà da splendida cornice. Il monastero, appartenete alla setta dei “Berretti Rossi”, è aperto tutti i giorni. Se siete interessati ad assistere alla preghiera vi suggerisco l’appuntamento delle 17 vista l’improponibilità di quello del mattino, dalle 4,30 alle 6!

Bhutia Busty Gompa - Darjeeling Bhutia Busty Gompa - Darjeeling

Da qui potete rifare la strada in salita oppure, se siete interessati ad approfondire il discorso sui tibetani in esilio che occupano la zona, potete proseguire verso il Tibetan Refugee Self-help Centre e da lì risalire. Fondato nel 1959, si tratta di un piccolo centro profughi che comprende, oltre ad un tempio, una scuola, un orfanotrofio e una clinica, un’interessante mostra fotografica e un laboratorio d’artigianato con annesso negozio. Il percorso di risalita è immerso nella natura, molto piacevole e silenzioso e vi permetterà di scoprire alcuni degli angoli più tranquilli della città, riportandovi quindi sulla Bhanu Bhakta Sarani che potrete percorrere per fare ritorno a Chowrasta.

Tibetan Refugee Self-help Centre - Darjeeling Darjeeling

Darjeeling

La Bhanu Bhakta Sarani è un percorso panoramico  pianeggiante che si snoda ai piedi della Observatory Hill regalandovi, in condizioni di buona visibilità, delle vedute spettacolari. Costeggiate le bancarelle che vendono più che altro scialli e pashmine e, una volta arrivati a Chowrasta fate inversione a U per ritrovarvi a scendere lungo la Jawahar Road West, in direzione del Parco Zoologico e dell’Himalayan Mountaineering Institute.

Questo istituto, fondato nel 1954 dall’allora Primo Ministro dell’India Pandit Jawaharlal Nehru e ancora oggi affermata scuola di alpinismo riconosciuta a livello mondiale, ospita un interessantissimo museo di equipaggiamenti delle prime spedizioni sull’Everest le quali, essendo vietate dal versante nepalese, partivano quindi da Darjeeling e, attraverso il Tibet, raggiungevano il versante nord. Primo direttore dell’istituto fu niente popò di meno che Tenzing Norgay, lo sherpa residente a Darjeeling che insieme a Sir. Edmund Hillary mise piede per la prima volta sulla sommità del gigante di pietra appena un anno prima.

Himalayan Mountaineering Institute Darjeeling

L’istituto si trova immerso e nascosto all’interno del parco zoologico che quindi non potrete fare a meno di visitare se interessati al discorso alpinistico. Tanti esemplari di fauna che popolano l’Himalaya, tra cui anche il Red Panda, trovano posto all’interno di questo ambiente boscoso catalogato comunque come uno dei migliori zoo di tutta l’India. L’ultimo ingresso è consentito alle ore 16. Chiuso il giovedì. Il costo d’ingresso per gli stranieri è di 100 rupie.

Red Panda - Darjeeling Red Panda - Darjeeling

A Darjeeling le giornate sono abbastanza corte nel senso che, a parte la questione ore di luce,  dovrete anche adattarvi agli orari di cafè e ristoranti i quali aprono dopo le 8 per la colazione e chiudono intorno alle 19.30. Questo ovviamente vi obbligherà a dover cenare presto. Ancora mi sogno di notte i piatti squisiti che ho mangiato al Kunga Restaurant, al numero 51 di Gandhi Road, praticamente sotto all’ Hotel Dekeling: momo, zuppe di noodles, il miglior pane tibetano mai assaggiato, il tutto cucinato da un’accogliente famiglia…assolutamente da non perdere!

Ora che avete dedicato tempo alla parte superiore di Darjeeling – potreste anche arrivare alla Peace Pagoda ma detto sinceramente non ne vale la pena – è arrivato il momento di spingersi in basso, verso la stazione del famoso Toy Train. La Darjeeling Himalayan Railway su cui viaggia l’unico vero treno per Darjeeling si estende fin qui per 78 km da New Jalpaiguri. Soltanto lungo il tratto Ghum-Darjeeling vengono tuttavia ancora utilizzate le vecchie locomotive a vapore risalenti all’epoca di governo del Raj Britannico e sono quelle che vengono sfruttate maggiormente dai turisti.

Prenotare non è detto che sia così immediato per via dei posti limitati ma soprattutto ritrovarsi a bordo potrebbe risultare meno interessante che non appostarsi nei punti di passaggio del treno per vederlo dall’esterno. A mio avviso, la seconda opzione è molto più pittoresca. Detto questo informatevi presso la stazione sugli orari aggiornati e sulle disponibilità e poi prendete la vostra decisione.

…Io nel frattempo vi racconto come si è svolta la mia giornata tra Darjeeling e Ghum!

Da Chowrasta scendete fino a Clubside e chiedete di indicarvi la strada per lo stand dei taxi diretti a Dali. Salite quindi sulla prima share-jeep disponibile e con sole 10 rupie arriverete a destinazione. Il tragitto dura circa 15 minuti. Dali è il piccolo paese, situato a metà strada tra Darjeeling e Ghum dove si trova il Druk Sangak Choling Gompa, anche conosciuto come Dali Monastery. Un edificio imponente che si affaccia sulla strada, la Cart Hill Road, e che avrete di certo già notato arrivando a Darjeeling dalla pianura. Costruito nel 1971, il monastero ospita più di 200 monaci appartenenti alla scuola Kagyupa che si riuniscono per la preghiera al mattino dalle 5 alle 6.30 e il pomeriggio dalle 17 alle 18.30. Da qui proseguite a piedi in direzione Ghum ma guardatevi sempre indietro per non perdere gli scorci migliori sul monastero.

Dali Gompa Dali Gompa Dali Gompa

In 15 minuti arriverete quindi al Batastia Loop, il punto dove il famoso Toy Train, compiendo un giro di 360°, perde o guadagna in altezza. Cercate di arrivare da queste parti prima delle 11 per aspettare il passaggio del treno che qui lascia scendere i suoi passeggeri per scattare qualche foto, prima di continuare il tragitto fino alla stazione di Ghum. Anche dal Batastia Loop, se la visibilità lo permette, il panorama sulle montagne è spettacolare!

Batastia Loop - Train to Darjeeling Batastia Loop - Train to Darjeeling

Continuando lungo la Cart Hill Road si arriva poi al Samten Choling Gompa dove è custodita la statua del Buddha più grande di tutto il West Bengala. All’interno del complesso c’è poi anche un piccolo negozietto che vende snack e bevande.

Samten Choling Gompa - Ghum Samten Choling Gompa - Ghum Samten Choling Gompa - Ghum

Ormai siete quasi arrivati al centro abitato di Ghum dove tra gli altri edifici svetta anche il Sakya Guru Gompa, simile a una fortezza. Risalendo la rampa di accesso al monastero, oltre il ponte sulla destra, vi si aprirà una bellissima vista sulla cittadina.

Sakya Guru Gompa - Ghum Sakya Guru Gompa - Ghum Sakya Guru Gompa - Ghum

Prima di passare al prossimo e ultimo monastero di Ghum, avvicinatevi alla stazione e aspettate che il treno abbia ripreso la sua corsa di ritorno verso Darjeeling (alle ore 12). Questo è forse il momento più pittoresco, quando il Toy Train percorre le strade strette passando a pochissimi centimetri dai negozi di frutta e verdura che si trovano lì accanto. E’ davvero incredibile e questo vi darà la riconferma di quanto sia meglio, dovendo scegliere, vederlo dall’esterno piuttosto che esserci seduti sopra!

Ghum - Train to Darjeeling

L’ultimo monastero di Ghum, lo Yiga Choling Gompa, che appartiene alla setta dei “Berretti Gialli”, è anche il più antico. La struttura è molto più modesta rispetto agli altri ma all’interno custodisce antichi affreschi e testi tibetani di grande valore. Terminata la visita riportatevi sulla strada principale e, in zona stazione, fermate la prima share-jeep diretta a Darjeeling.

Yiha Choling Gompa - Ghum

Proprio sotto la stazione di Darjeeling si trova il famoso Dhirdham Mandir, una copia del Pashupatinath Temple di Kathmandu. Da qui si aprono delle meravigliose vedute sulla città che per lungo tempo venne utilizzata come stazione climatica dalla classe governativa britannica mentre oggi è rinomata come una delle più piacevoli mete turistiche montane.

Dhirdham Mandir DSC_1075

Alla stregua di Shimla, in Himachal Pradesh, anche a Darjeeling si possono trovare le vestigia di quel passato coloniale che la rende ancor più affascinante, immersi in una meravigliosa cornice montana dove godere dello spettacolo della natura himalayana.

Pianta di Rododendro in fiore @ Darjeeling

Pianta di Rododendro in fiore 

Per gli appassionati di tè poi, o anche solo per farvene una cultura, non c’è come visitare uno stabilimento di produzione, lì dove vi spiegheranno quindi tutti i passaggi di ottenimento di una delle qualità di tè più pregiate al mondo. Senza andare troppo lontano e facilmente raggiungibile a piedi da Chowrasta potete allora fare tappa alla Happy Valley Tea Estate (ingresso con visita guidata 100 rupie). Seguite la Lebong Cart Road in direzione del Parco zoologico e quindi, quando circa a metà strada troverete il cartello, scendete a sinistra. Alla fine della T.P. Banerjee Road che serpeggia in discesa tra le piantagioni troverete l’edificio bianco principale. Enjoy your cup of Darjeeling tea! 🙂

Se il vostro viaggio a questo punto dovesse proseguire verso Siliguri, sappiate che il costo di una jeep condivisa è di 150 rupie (1.000 rupie per l’intero veicolo) e che queste sono in partenza non solo dalla stazione degli autobus, ma anche di fronte all’Hotel Ramada. Il tragitto ha una durata di circa 3 ore.

Viaggio in India: il Triangolo d’Oro dell’Orissa

Viaggio in India: il Triangolo d’Oro dell’Orissa 1024 682 Sonia Sgarella

L’India si sà, è un mosaico di culture un po’ come lo è l’Italia: ogni tassello con la sua storia e le sue tradizioni – linguistiche, artistiche e culinarie – che seppur in parte lo accomunano con gli stati e le regioni confinanti, dall’altro lato lo rendono unico nel suo genere, irripetibile e speciale.

Ecco che allora parlando di India, in Orissa vengono a galla tanti di questi aspetti – come le danze e l’architettura templare per esempio – che qui raggiungono livelli d’eccellenza e particolarità degni di nota, forse ancor più intriganti proprio perché non tra i più conosciuti. Pur trattandosi infatti di mete molto frequentate dal turismo domestico per questioni prettamente religiose, il cosiddetto “Triangolo d’Oro” (o “Triangolo Sacro”) dell’Orissa – Swarna Tribhuja – sembra non avere ancora attirato più di tanto l’attenzione del turismo internazionale che qui ci arriva – forse – solo dopo una terza o quarta visita nel paese.

Bhubaneswar, Puri e Konark, ognuna di queste località con qualcosa di curioso da offrire in termini di produzione artistica o di devozione religiosa: è proprio qui che venne infatti raggiunta l’eccellenza nello stile nagara (“del Nord”) e sempre qui, presso il tempio di Jagannath di Puri, che si svolge uno dei festival più incredibili di tutta l’India, lo Rath Yatra, il “Festival dei carri” giganti che vengono trainati a mano da una folla di fedeli incalliti.

Raccontano le cronache che dal secolo VII al secolo XIII l’Orissa fu uno dei maggiori centri artistici dell’India in cui la tradizione scultorea raggiunse i suoi più alti livelli dando vita a dei templi preziosi come gioielli per l’armonia delle forme. Qui si parla localmente di deul per indicare l’intero complesso templare oppure, di questo, le singole parti: rekha deul, in riferimento alla cella sacra (garbhagriha) e alla torre curvilinea che lo sovrasta (shikara), la quale slancia questa parte dell’edificio verso l’alto (rekha = linea retta); nei templi dedicati a divinità femminili, il rekha deul viene sostituito dal cosiddetto khakhara deul, una struttura più simile alle porte di ingresso alle città tempio del sud, così chiamato per la forma “a botte” con cui culmina; infine vi è il pidha deul, il padiglione della preghiera più diffusamente conosciuto come mandapa nel sud e jagamohana nel nord.

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1.Bhubaneshwar e dintorni (Khandagiri, Udayagiri, Haripur e Dhauli)

A Bhubaneswar di esempi appartenenti alle due categorie se ne incontrano di vari, uno più bello dell’altro, tant’è che vale la pena passarli tutti in rassegna o, se non alto, almeno i principali. Si racconta che tra il VII e il XIII secolo attorno al laghetto artificiale conosciuto con il nome di Bindu Sagar – oggi situato nei sobborghi meridionali della città – siano stati eretti circa sette mila templi, la maggior parte dei quali purtroppo distrutti nel corso delle incursioni islamiche del XVI secolo. Nonostante questo è però ancora possibile, tra quelli sopravvissuti, tracciare l’evoluzione dell’architettura locale, dalle forme più semplici a quelle più articolate, il tutto con un comodo tour in auto-rickshaw (i prezzi nel 2016 si aggiravano intorno alle 250 rupie per la visita dei templi principali compreso il tempo di attesa).

Tra tutti, il più antico e meglio conservato esempio di architettura kalinga – in riferimento alla regione storica dell’India comprendente buona parte dell’Orissa e dell’Andhra Pradesh – risalente al 650 d.C. è il Parashurameshwara Mandir, molto probabilmente commissionato sotto il regno di Madhavaraja II della dinastia Shailodbhava. Il tempio, dedicato al culto di Shiva presenta alcuni elementi particolari tra cui un lingam di pietra monolitico esterno alla struttura principale e raffigurazioni delle Saptamatrika, le “sette madri”, particolarmente significative per le sette tantriche dell’induismo collegate al culto della Shakti, ovvero della divinità femminile.

Parashurameswara

Chamunda - Parashurameswara

A destra l’immagine di Chamunda

Dedicato interamente a Chamunda, l’aspetto più terrifico della dea Durga, è poi il Vaital Deul Mandir, risalente all’VIII secolo e costruito nello stile Khakhara, ovvero con una sovrastruttura alla cella sacra più simile ai portali del sud che non alle torri del nord. Le figure scolpite sulle facciate del tempio rappresentano varie divinità hindu, tra cui la coppia (mithuna) Shiva e Parvati, e alcune tra le prime immagini erotiche risalenti a quell’epoca.

Vaital Deul Mandir

Kharkhara Deul, la”volta a botte”

Vaital Deul Mandir

Vaital Deul Mandir

Rappresentazione di mithuna, la “coppia divina”

Costruito duecento anni dopo il Parashurameshwara e quindi caratteristico dell’evoluzione nell’arte templare dell’Orissa è il Mukteshwara Mandir, considerato una gemma architettonica sia per la compattezza delle sue forme che per i dettagli delle squisite sculture che ne adornano le facciate. Risalente al X secolo e di nuovo dedicato a Shiva, fu probabilmente la prima opera commissionata sotto il dominio del re Yayati I della dinastia Somavamshi, un complesso di rara bellezza, caratterizzato inoltre dalla presenza di un insolito portale d’ingresso molto simile ad un torana buddhista.

Mukteshwara Mandir

Mukteshwara Mandir

L’impianto del Mukteshwara consiste di una cella sacra sovrastata da uno shikhara (“cima di montagna”) di forma più slanciata che nel tempio di Parashurameshwara e di un jagamohan con copertura a pidha (a “piattaforme” stratificate). Il nome del tempio pare significhi “il Signore della Liberazione”, da collegare con il suo essere stato probabilmente un centro di iniziazione tantrica. Oggi il complesso ospita una volta all’anno il Mukteshwar Dance Festival, uno spettacolo di danza e musica classiche odissi.

Mukteshwara Mandir

Più grande del Mukteshvara ma che ne riproduce lo stesso schema è il Rajarani Mandir. La differenza in questo caso la fa lo shikhara, al cui nucleo centrale vengono aggiunte delle repliche dello stesso. Conosciuto localmente come il “tempio dell’amore” per via delle sculture erotiche che ne adornano le sue facciate, il complesso risale all’XI secolo ed è oggi patrimonio dell’Archeological Survey of India, indi per cui a pagamento (100 rupie). Si dice che proprio da questo tempio presero ispirazione i certamente più famosi templi di Khajuraho.

Rajarani Mandir

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All’interno della cella sacra non è presente alcuna immagine, cosa che ancor oggi fa discutere sul se si tratti quindi di un tempio dedicato al culto di Shiva o di Vishnu, nonostante gli studiosi siano più propensi ad affiliarlo alla fede shivaita per via di varie associazioni con le altre figure che ne arricchiscono il programma scultoreo.

Rajarani Mandir

Ultimo tra i principali in ordine di costruzione ma decisamente il più importante sia in termini di ampiezza che di devozione, il Lingaraja Mandir, dedicato a Shiva, fu probabilmente commissionato anch’esso sotto la dinastia dei Somavamshi ma venne in seguito ampliato sotto quella dei Ganga Orientali, gli stessi che nel XII secolo fecero costruire anche il Jagannath Temple di Puri. Un’opera imponente, con il suo shikhara alto circa 50 metri che svetta all’interno di un recinto purtroppo non accessibile ai non-hindu, i quali però lo potranno ammirare da una piattaforma panoramica che si trova appena lì accanto.

Lingaraja Mandir

Hari Hara, “metà Shiva e metà Vishnu”, così è conosciuto il potente lingam che si trova all’interno della sua cella sacra, uno dei dodici joytirlinga venerati in tutta l’India e che lo rendono appunto uno dei luoghi di devozione più importanti di tutto il paese.

Ma la storia di Bhubaneshwar, il cui nome deriva da quello della figura di Shiva come il “Signore dei Tre Mondi” (Tribhubaneshwar) e del suo immediato circondario, ebbe inizio ben prima del VII secolo, una tesi testimoniata dalla presenza, a nord della città, degli insediamenti monastici jaina scavati nella roccia delle colline di Khandagiri e Udayagiri, risalenti al I secolo d.C. Una lunga iscrizione incisa in una delle grotte, la Hathi Gumpha, menzionerebbe quale committente del monastero il re Kharavela della dinastia Chedi, sovrano della regione di Kalinga tornata indipendente dopo la morte di Ashoka.

Khandagiri e Udayagiri

La struttura delle grotte, che si trovano scavate sul fianco di due colline gemelle è molto simile a quella delle grotte dell’India centrale, quali Karla, Bhaja, Elephanta, Ellora ed Ajanta, un tempo importanti luoghi di culto e devozione – dei veri e propri complessi monastici rupestri – oggi frequentate invece da orde di turisti locali che ahimè rovinano un po’ l’atmosfera ma ciò non vuol dire che non siano degne di nota; al contrario, la decorazione di alcune delle grotte è di grande valore stilistico, per cui è assolutamente raccomandata una visita. Non essendoci un servizio autobus diretto per le grotte, da Bhubaneshwar vi converrà optare per un tuk tuk.

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Khandagiri e Udayagiri

Sempre nei dintorni di Bhubaneshwar, a 15 km di distanza e raggiungibile di nuovo con una corsa di tuk tuk, si trova uno dei pochi esempi presenti in tutta l’India (in totale sono quattro, due in Orissa e due in Madhya Pradesh) di tempio dedicato alle Yogini, ovvero a delle figure femminili semi-divine collegate al culto tantrico e considerate manifestazioni della shakti. Il Chausath Yogini Mandir di Hirapur, dedicato a ben 64 figure femminili – un numero ricorrente nella tradizione induista – che in questo caso particolare vengono rappresentate in posizione eretta e con accanto ognuna il proprio animale-veicolo. Il tempio, di forma circolare e senza copertura, si dice risalire al IX secolo.

Chausath Yogini Temple

Chausath Yogini Temple

Sulla strada per Hirapur potrete inoltre fermarvi a visitare anche il Vishwa Shanti Stupa di Dhauli, un’opera moderna che fa però riferimento ad una storia antichissima riguardante l’Orissa da vicino, o meglio, l’allora stato dei Kalinga, sconfitti proprio in questo luogo nel 260 a.C. dall’imperatore Ashoka della dinastia Maurya. Una strage di 150.000 persone – ricordano le cronache – che non solo portò all’assoggettamento di una popolazione, bensì al chiaro pentimento del grande sovrano il quale, a partire da questo momento – rinunciò completamente alla violenza per intraprendere invece il cammino spirituale promosso dalla fede buddhista.

Vishwa Shanti Stupa

Fu così che decise di far pubblicare una serie di editti in epigrafi su roccia o su colonne che vennero erette in diversi angoli del paese volte a diffondere regole di vita che facessero capo ai principi di accettazione e di non violenza. Lo stupa, commissionato da dei monaci giapponesi nel 1972 e costruito vicino ad uno di questi editti inciso su una roccia scolpita in forma di elefante, vuole essere un simbolo di pace per le generazioni future e un monito – recita un cartello – “contro l’utilizzo di armi nucleari che minacciano di distruggere il mondo”.

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2. Puri

In un articolo di qualche tempo fa vi parlavo della geografia sacra dell’India, ovvero di quei luoghi e itinerari di pellegrinaggio che, in riferimento ad una branca dell’induismo piuttosto che ad un’altra, dovrebbero essere visitati almeno una volta nella vita da ogni devoto che volesse facilitare il proprio percorso verso il moksha, ovvero la liberazione dal ciclo delle rinascite. Per i seguaci di Vishnu ecco che allora il più importante di questi percorsi, il Char Dham Yatra(“dell quattro dimore”), è quello che va a coprire i quattro luoghi sacri del paese dedicati alla divinità (o ai suoi avatar) posizionati ai quattro punti cardinali: Badrinath a nord, Dwarka a Ovest, Rameshwaram a sud e Puri, in Orissa, ad Est. La tradizione vuole che le divinità a cui sono dedicati, vissero ed operarono rispettivamente nelle quattro ere in cui si suole dividere l’evoluzione della Terra, detti Yuga: il Krita Yuga, l’età dell’oro, il Treta Yuga, l’età dell’argento, il Dvapara Yuga, l’età del bronzo e il Kali Yuga, l’età del ferro.

Jagannatha Puri

Jagannātha, il “Signore dell’Universo” altro non è che una manifestazione di Krishna/Vishnu che in questo contesto, insieme al fratello  Balarāma e alla sorella Subhadrā, assume una forma alquanto originale: trattasi infatti di una grande testa, di un volto sorridente con dei grandi occhi, e di un corpo privo di mani e di gambe, di colore nero/blu. Anche qui purtroppo ai non hindu non è permesso accedere al tempio ma le viette nei suoi immediati dintorni sono costellate da immaginette sacre che riproducono quelle presenti all’interno. Viste queste direi che ormai l’avrete capito: in India ci si può aspettare veramente di tutto!

Jagannatha Puri

Il tempio venne costruito all’inizio del XII secolo sotto la dinastia dei Ganga Orientali, sul modello del Lingaraja di Bhubaneshwar. Di fronte ad esso si estende l’arteria più ampia della città, la Grand Road, progettata ed utilizzata per la grande processione che si tiene ogni anno nel mese di luglio/agosto, lo Rath Yatra, il “festival dei carri”. In tale occasione le immagini sacre presenti all’interno del tempio vengono caricate su dei carri giganti (quello di Jagannath è alto 13 metri ed ha ben 18 ruote) i quali vengono tirati tramite funi da 4200 onorati devoti verso la loro residenza estiva, il Gundicha Ghar, situata a 1,5 km di distanza. La processione ovviamente vede il partecipare di centinaia di migliaia di persone ed è considerata una delle feste più spettacolari di tutta l’India.

A parte la zona del tempio comunque Puri è una città abbastanza tranquilla che si sviluppa su uno dei lungomare più ampi di tutto il paese, tant’è che già gli inglesi a loro tempo ne intravidero il potenziale per essere un ottimo resort balneare. Dal sacro al profano dunque e finita la parte devozionale ecco che le orde di indiani si spostano tutte lungo Marine Drive e sulla spiaggia che si estende lì di fronte. Una cosa è sicura: il nostro concetto di località balneare è decisamente lontano cent’anni luce dal loro, per cui non aspettatevi nient’altro che il solito macello indiano!

Jagannatha Puri

Le sistemazioni per i viaggiatori zaino in spalla si trovano concentrate nell’enclave di Pentakunta, ovvero lungo la Chakra Tirtha (CT) Road, più spostata verso il villaggio dei pescatori. Nel 2016 io ho alloggiato nella One Love Guest House, carina ed economica, ma può essere che nel frattempo sia venuto fuori anche qualcosa di nuovo. Per raggiungere Puri da Bhubaneshwar non dovrete fare altro che prendere qualunque autobus in partenza ogni 15 minuti dall’Ashok Hotel (Kalpana Square) o dall’autostazione principale della città, chiamata Baramunda. Il viaggio ha una durata di circa un’ora e un quarto.

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3.Konark

Ed eccoci dunque giunti all’apice dell’edilizia religiosa hindu dell’Orissa e non solo: Konark, il tempio dedicato al dio Sole è infatti uno dei santuari meglio scolpiti di tutta l’India, Patrimonio Mondiale dell’Unesco, con un programma architettonico tra i più complessi ed affascinanti, che lo vede costruito sotto forma di un gigantesco carro trainato da sette cavalli, ovvero il veicolo sul quale il dio compie ciclicamente il suo percorso.

Konark

L’imponente complesso venne molto probabilmente ultimato nel 1258 sotto il governo di Narasimhadeva della dinastia Ganga, il quale lo volle costruito al ritorno di una vittoriosa campagna militare. La sua realizzazione apparentemente richiese circa vent’anni, sei dei quali impiegati solo per la stesura del progetto. Il tempio, costruito nello stile nagara e in blocchi di pietra, sorge al centro di un vasto recinto , su un alto basamento, lungo il quale sono raffigurate 12 paia di ruote, simboleggianti i dodici mesi e segni zodiacali. La scultura è raffinata e presenta tanti elementi di stampo erotico, tra cui coppie in amplesso ed esibizionisti solitari.

Konark

Konark può essere tranquillamente visitato in giornata da Puri tramite autobus. Il viaggio ha una durata di circa un’ora.

Esperimento con l’India: imparare a conviverci

Esperimento con l’India: imparare a conviverci 720 493 Sonia Sgarella

Si racconta dell’India che la ami o la odi. Che dite, sarà poi così vero?

Chi l’India la conosce – per quanto si possa conoscere una realtà così varia e complicata – sarà forse d’accordo nell’ammettere che i due sentimenti difficilmente si escludono a vicenda: le due cose si muovono parallele, anzi, si alimentano l’un l’altro.

Mi spiego meglio…

L’India è forse l’unico paese al mondo che sa farti arrivare i nervi a fior di pelle: ti stressa, ti mette di fronte alle condizioni meno sopportabili, al caldo, al traffico, allo sporco, alla  folla, alla miseria, alle situazioni meno tollerabili; ti sbatte faccia a faccia con quei limiti che mai avresti pensato di poter raggiungere.  Per tutto questo e molto altro l’India la odi. Sfido chiunque, perfino l’anima più imperturbabile, a sostenere il contrario!

Ma se è vero il detto che “chi odia ama”, l’India è quel paese che mentre ti fa incazzare, ti sta lentamente seducendo senza neanche che tu te ne accorga. E’ tutta una questione di tempo perché da quello che apparentemente vi potrà sembrare tragico e frustrante, possa uscirne qualcosa di buono. Credetemi, se non ha funzionato la prima volta, datele una seconda possibilità!

A contatto con l’India si cresce interiormente perché quei limiti, volente o nolente, ti ha obbligato a superarli, facendoti provare emozioni talmente forti che rimarranno necessariamente indelebili nella tua mente; non solo, l’India ti porta a rimettere in discussione ogni tuo punto di vista e tutti i tuoi “credo“, ti fa riflettere, ti insegna il concetto di accettare e lasciar correre senza prendertela.

Ma più di ogni altra cosa, volete sapere personalmente qual’ è l’aspetto che maggiormente mi lega – e forse legherà anche voi – a questa terra di incredibili contraddizioni? L’India mi fa letteralmente morir dal ridere! L’India è la patria delle stranezze e qui come in nessun altro paese sono all’ordine del giorno, ti si palesano davanti agli occhi come se fossero una scontata normalità ma suvvia, la verità è che per noi in India di normale non c’è assolutamente niente! L’India è un mondo completamente folle!

Lasciar correre e riderci sopra allora: niente male come filosofia di vita, l’unica che conosco per poterle sopravvivere!

Che ti piaccia oppure no quindi, è probabile che prima o poi l’India ti ritroverai inconsciamente ad amarla e lo farai serenamente, imparando a convivere con le tue incazzature. Questo non significa che si debba per forza condividerne tutte le storture sociali, ma neanche farne una ragione di scontro. In poche parole, se volete sopravvivere a questo mondo fareste bene a partire già con una buona dose di rassegnazione: l’India non la si combatte, fatevela amica e scorreteci insieme o, in alternativa, sappiate di avere già perso in partenza!

“India is not a tourist-friendly country. It will reveal itself to you only if you stay on, against all odds. The “no” might never become a “yes” but you will stop asking questions.”

(Suketu Mehta)

Ma concentriamoci ora sul fattore umano: quanti e quali personaggi arriveranno ad infastidirvi durante il vostro viaggio in India e, in alcuni casi, soprattutto se siete donne? Come comportarvi? Ecco qualche consiglio frutto della mia personalissima esperienza sul posto!

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1. I Bugiardi

Ebbene sì, tutto il mondo è paese e anche qui, non appena atterrati, troverete già chi cercherà di fregarvi approfittando del vostro disorientamento da novellini. Vi faccio un esempio pratico perché capiate di cosa sto parlando e perché è molto probabile che succederà anche a voi se, una volta arrivati a Delhi, vorrete prenotare un treno direttamente dalla biglietteria della stazione.

Leggi anche “Happy Journey!” – India fai da te: info utili per chi viaggia in treno e autobus

Nella fattispecie, fuori dalla stazione di New Delhi, incontrerete dei personaggi che vi fermeranno per cecare di convincervi che l’ufficio prenotazioni dedicato ai turisti stranieri è  stato spostato in un nuovo edificio raggiungibile solo con una breve corsa di tuk tuk. Ovviamente si tratta di una menzogna: il Tourist Bureau si trova da anni al primo piano nell’edificio principale della stazione e non si è mai spostato neanche di mezzo centimetro! Coloro che hanno creduto alla storia del trasferimento sono stati portati in una sorta di losca agenzia di viaggio dove gli è stato venduto un biglietto a prezzo maggiorato se non addirittura raddoppiato o triplicato.

Tenete allora presente questa cosa: se un indiano si offre di darvi il suo aiuto o informazioni senza che voi glielo abbiate chiesto, in linea di massima sta cercando di fregarvi o di trarne un vantaggio. Fidarsi è bene ma, in India, dubitare è sempre meglio! Se avete una domanda o un dubbio chiedete ad almeno due o tre fonti prima di crederci e comunque sappiate che è tipico indiano darvi come risposta quello che molto probabilmente vorreste sentirvi dire; che sia la verità o meno poi, quello poco importa e lo scoprirete solo strada facendo.

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2. I Bramini Accattoni

Ti vedono arrivare da lontano, varcare la soglia del tempio, quasi gli si illuminano gli occhi e ti richiamano verso la cella sacra per darti la benedizione, il tutto ovviamente al fine di ricevere una  lauta offerta. Ma come? In alcuni templi non è neanche permesso l’accesso ai non hindu e invece in altri addirittura quasi mettono da parte i loro fedeli per riporre su di te tutte le attenzioni? C’è qualcosa che non mi torna.

Dicesi donazione un’offerta volontaria, non dovuta. Il fatto che sia un bramino (che ricopre circa il ruolo dei nostri preti) a chiedervela non deve mettervi in soggezione né tanto meno intimorirvi, anzi, fossi in voi, proprio perché ve lo sta chiedendo, io non gli darei neanche un centesimo. Tanto meno se questa donazione quasi ve la impongono mostrandovi un quaderno che elenca le offerte fatte da altri stranieri e che ammontano solitamente a centinaia o migliaia di rupie.

Purtroppo ho visto tanti turisti elargire uno sproposito di rupie solo per la paura di mancare di rispetto ad una figura religiosa.  Tenete questo bene a mente:  il fatto che i bramini  siano per nascita i custodi di antiche tradizioni sacre, non significa che siano dei santi, anzi, molti di loro non lo sono affatto;  inoltre è risaputo che i templi hindu siano tra gli enti più ricchi di tutto il paese.

Gli indiani stessi, quelli che ci tengono alla purezza della loro religione, sono i primi a non frequentare determinati centri e a disdegnare questa mercificazione della fede. Non sentitevi dunque in dovere di lasciare per forza un’ offerta e se lo volete fare, che sia della  cifra che decidete voi. Guardatevi intorno e vedrete che la maggior parte dei devoti non dona più di 10-20 rupie per cui fate lo stesso.

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3. Le Ladies

Ruttano, russano e hanno l’incedere di un elefante. No, non sto parlando delle graziose e  minute adolescenti che timidamente ti avvicinano e incuriosite ti fanno qualche domanda ma delle loro madri o, ancor peggio delle loro nonne conservatrici che vedono in noi occidentali delle “poco di buono”. La donna indiana sposandosi acquisisce più dignità sociale. Quel che succede all’interno della  famiglia allargata è che le ultime arrivate devono sottostare al “matronato” di quelle più anziane le quali, col passare degli anni e l’arrivo di nuove generazioni, conquistano sempre più autorevolezza.

Sarà allora forse per questo, e per la costituzione che comincia ad aumentare dopo il primo figlio , che le timide e graciline fanciulle si trasformano in degli esseri invadenti e senza remore, soprattutto nei confronti delle turiste femmine.

Ladies India

Le situazioni peggiori in cui avere a che fare con una di queste gentili signore sono i viaggi in autobus e in treno. In autobus (mezzo che fu concepito nell’antichità quando l’indiano medio era ancora magrolino), te le ritroverai accanto a schiacciarti con la loro stazza (preferiscono comunque sedersi di fianco ad una donna), senza preoccuparsi del fatto che tu sia comoda o meno.

In treno invece, nel caso in cui sleeper, dopo essersi divorate tutto il cibo portato da casa, vorranno sdraiarsi e i loro cari mariti faranno di tutto per accomodarle. Come? Lasciandole tutta la branda – su cui dovrebbero stare seduti in tre –  e quindi spostandosi dalla tua parte dove, nel frattempo, si sono accumulate dalle quattro alle cinque persone. Ora, per situazioni del genere uno potrebbe anche farsi una risata ma vi assicuro che, se fa caldo e su quel mezzo ci siete seduti da almeno quattro ore, le vorreste uccidere!

Ancora peggio, nelle grandi città, è ritrovarsi nell’ ora  di punta su un vagone per “ladies only” dove, vi assicuro, mi è capitato di vederne alcune tirarsi i capelli per rivendicare il loro posto a sedere.

Altra categoria di tremende sono poi quelle appartenenti alle classi più povere e spesso intente a chiedere l’elemosina. Ti chiamano didi (“sorella”), antie (“zia”) o addirittura rani (“principessa”) ma non si faranno assolutamente problemi a strattonarti e a tirarti dietro tutte le maledizioni se ti rifiuti di dar loro qualcosa. Tranquille comunque, la curiosità che hanno nei vostri confronti ben presto le trasformerà tutte nelle vostre migliori amiche.

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4. Gli Stalker

Appartengono a questa categoria diversi tipi di uomini: ci sono gli stalker “da vicino” e quelli “da lontano”. I primi ti approcciano con le solite domande del caso – which country are you (il from è opzionale), what is your name… – e non ti mollano più. Gli altri, che sono i peggiori, si piazzano a distanza ma mantengono lo sguardo fisso su di te, non lo distolgono neanche a pagarli e nel frattempo con il loro cervello chissà a che cosa stanno pensando. Se i primi possono essere noiosi a lungo andare, i secondi sono quelli che per una donna possono risultare davvero fastidiosi soprattutto se gli sguardi vengono rivolti con malizia.

Purtroppo in India esiste una concezione che vede la donna bianca letteralmente come una mezza prostituta: le immagini dei film che ormai spopolano ovunque, gli atteggiamenti più aperti (per loro anche stringere una mano è considerato un atteggiamento aperto!) o l’abbigliamento che mette in mostra parti del corpo che le donne indiane non mostrerebbero mai (per esempio gambe e spalle), può dare adito a questo pensiero e portarli a credere di poterci “conquistare facilmente”. Questo succede soprattutto tra i ragazzi più giovani che la prendono come un gioco o tra gli uomini di mezza età, mentre i più anziani ci vedono semplicemente come degli alieni per cui il loro sguardo è quello di semplice curiosità.

Varanasi India

Se comunque la situazione diventa pressante, la soluzione migliore è quella di alzare la voce. Vedrete che, in men che non si dica, troverete qualcuno pronto a difendere la vostra causa e a rimproverare bruscamente chi vi sta dando fastidio.

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5. Quelli che il selfie…

Ebbene si, la mania del selfie ha spopolato anche in India e diventerà uno dei vostri incubi peggiori! Tanto per intenderci, il manager della guest house in cui stavo mi ha addirittura bussato in camera per chiedermi se facevo un selfie con lui! In questi anni di viaggi in India sono stata testimone delle fasi di sviluppo e diffusione della tecnologia che riguarda i telefoni: nel 2009 i telefonini ancora non esistevano se non quelli di vecchia generazione che possedevano solo in pochi; trovare un telefono fisso per strada era facilissimo, bastava cercare la scritta STD; i turisti scattavano le foto agli indiani.

Std India

Nel 2012 più della metà degli indiani aveva un telefono in mano, sempre di vecchia generazione ma con una piccola fotocamera incorporata; i punti STD sopravvivono a stento ma ancora si trovano; il turista fa la foto all’indiano; qualche indiano incomincia a fare la foto al turista.

Nel 2016 la situazione è completamente sovvertita: tutti gli indiani sono in possesso di cellulari di nuova generazione, più belli e più grandi di quelli dei turisti; trovare un STD è diventata una mission impossible; il turista viene pedinato perché ormai tutti gli indiani vogliono farsi un selfie con lui. Morale della favola? Il turista ha quel che si merita e almeno adesso si rende conto di quanto possa dare fastidio essere dall’altra parte dell’obiettivo.

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6. Gli Invasati di Spiritualità

“L’India è la patria della spiritualità”: quante volte ho sentito pronunciare questa frase a vanvera da persone che l’India non saprebbero neanche ritrovarla sulla mappa! L’India è certo la patria di filosofie antiche, anzi antichissime ma che si sono formate in un contesto dal quale non possono e non dovrebbero prescindere. Rishikesh, Bodhgaya, Pune, Auroville e tanti altri, tra cui centri yoga e ashram per la meditazione, sono i luoghi dove solitamente si concentra questo tipo di individui provenienti da tutto il mondo, tanti dei quali tedeschi, francesi ma anche in inglesi e italiani.

Niente da dire sulla loro scelta di orientamento, niente finché non vi capiterà di averci a che fare e allora vi asciugheranno con le loro teorie trascendentali. Osho, Sai Baba, Hare Krishna Hare Ram Krishna Krishna Hare Hare…ma basta! Tutte le volte che sono entrata in un Iskon Temple non hanno fatto altro che cercare di vendermi libri o di farmi lasciare un’offerta, il centro per la meditazione dinamica di Osho costa più di un hotel 5 stelle, Auroville è un mondo utopico dove un consistente gruppo di occidentali vive in pace con l’universo sbattendosene letteralmente le palle del mondo che sta fuori, a Rishikesh in un centro yoga mi hanno suggerito di evitare di parlare con gli indiani….ma che cosa ci fate in India allora mi chiedo io?

Non mi permetterei mai di fare di tutta l’erba un fascio ma purtroppo quello che vedo è, in molti casi, un puro disinteresse nei confronti del paese in cui si trovano, paese da cui tuttavia hanno tratto le filosofie che gli stanno apportando un benessere personale. Benessere personale dunque, questo è tutto, senza il mimino interesse o anzi, a volte quasi un disdegno nel conoscere la realtà che sta fuori da questi ambienti ben protetti.  Questo genere di persone sono quelle che a me personalmente non vanno per niente a genio.

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7. Gli Israeliani

Ho cominciato a conoscere gli Israeliani durante un viaggio in Sud America ma ne ho scoperto la vera essenza soltanto in India dove si riversano a frotte una volta terminato il servizio militare obbligatorio nel loro paese, maschi e femmine. Sono tendenzialmente molto giovani, intorno ai 22-24 anni, si spostano in gruppi e tendono a socializzare soltanto tra di loro. Gli Israeliani non li si trova ovunque, hanno una serie di luoghi che preferiscono, ovvero dove tendenzialmente si trovi da fumare e si possa cazzeggiare più che altrove: luoghi quindi sufficientemente turistici dove possano, tra le altre cose, trovare ristoranti che servano cibo della loro tradizione.

Non avete idea di che faccia possano avere? Pensate all’immagine comune che abbiamo di Gesù Cristo, che parli con accento arabo,  ed eccovi fornita l’identikit! 🙂 Mi ricordo quando ancora non c’erano gli smartphone, loro erano quelli che monopolizzavano gli internet point per le video chiamate e fu proprio in quell’occasione che imparai il significato della parola shalom, il loro saluto. In quanto giovani sono soliti avere quell’atteggiamento spavaldo che non prevede il rispetto per chi gli sta intorno, tanto meno per gli indiani che vengono spesso trattati con arroganza e maleducazione.

Difficilmente li incontrerete nei siti archeologici di maggiore interesse: per loro l’importante non è il luogo ma la compagnia per cui  li troverete a perdere le giornate intere ascoltando musica davanti alle loro stanze o nei cafè. Adorano la musica techno e non si faranno problemi a tenerla a tutto volume dando per scontato che debba per forza piacere anche a voi. Di seguito l’elenco di alcune delle mete incluse nel loro percorso: Old Manali, Kasol e dintorni, Mcleod Ganj e dintorni, Pushkar, Goa, Gokarna, Hampi, Havelock Island, Vattakanal.

Ah, ovviamente questo non toglie che io abbia conosciuto degli Israeliani favolosi, viaggiatori solitari o coppie e spesso sono loro i primi a prendere le distanze dai propri connazionali.

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8. Quelli che il clacson

Fatevene una ragione: in India il clacson si suona perché lo prevede il codice della strada, è il loro modo di comunicare e quello che evita da sempre una miriade di incidenti mortali. Clacson che per poco non ti bucano un timpano, che nelle grandi città non ti faranno dormire la notte, fino a quando non ci avrai fatto talmente l’abitudine da diventare soltanto un altro suono di sottofondo con cui dover convivere.

Il clacson si usa per avvertire chi c’è davanti del proprio passaggio, è una specie di invito al non muoversi, al non cambiare la propria rotta per evitare uno scontro. Le strade indiane sono forse una delle cose più incredibili di questo paese, gli incroci e gli attraversamenti nelle grandi città l’ostacolo più difficile per un turista alle prime armi, ma c’è una tecnica per sopravvivere: fare gruppo. Se dovete attraversare una strada e non sapete da dove partire, affiancatevi al primo indiano che intende fare lo stesso e seguite ogni suo movimento.

In India vige la regola dello “schiva l’ostacolo” e credetemi, sono talmente bravi a farlo che riuscirete ad uscire indenni anche dalle situazioni apparentemente più critiche ma fate attenzione, in India vige anche la regola del più grosso: se si tratta di un pullman fatevi da parte perché quelli si che potrebbero tirarvi sotto!

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9. Avete qualcosa da aggiungere?

Amanti dell’India e non, fatevi avanti, sono curiosa di sapere chi vi ha fatto incazzare di più durante le vostre esperienze con l’India!:-) 

Ma a proposito di “Esperimento con l’India”: esiste un libricino con questo titolo che é di Giorgio Manganelli e che vale la pena di leggere. Si tratta di un insieme di resoconti scritti nel 1975 a seguito di un viaggio come inviato della rivista “Il Mondo”.

Quegli angoli del Gujarat che non immaginavo…

Quegli angoli del Gujarat che non immaginavo… 1024 699 Sonia Sgarella

Oggi ritorno col pensiero in Gujarat e lo faccio mentre leggo il libro sull’India di Stefano Cotone. “Ti racconto l’India…” mi venne regalato otto anni fa da una persona che si diceva essere “per nulla interessata a quel paese” e che colse l’occasione di un incontro  per passare a me ciò che a sua volta aveva ricevuto in dono. Forse la mancanza di tempo, una partenza imminente o chissà cosa non ricordo, mi fece commettere l’errore di riporre il libro sullo scaffale dei libri già letti: testi che ho divorato in pochi giorni perché troppo belli, libri che mi hanno dato ispirazione e insegnato un sacco di cose, che ho sottolineato, evidenziato e pasticciato in tutti i modi ma anche libri che ahimè, pur sforzandomi, non ce l’ho fatta a terminare, libri noiosi, pesanti, su cui ti ci addormenti.

Per uscire dal quel mondo e fare ritorno sullo scaffale dei libri da leggere, a casa mia di solito devono passare degli anni, quando per una coincidenza improbabile non mi sono rimasti più libri in lista d’attesa oppure perché, dimenticandomi totalmente di cosa parlasse il testo, decido di riprenderlo in mano e di ricominciare a sfogliarlo.

Ebbene, questo è quello che è successo con il libro di Cotone di cui mi sono resa conto di non aver mai letto neanche una riga nonostante mi fossi convinta di averlo fatto; pagine e pagine che ora scopro trattare tantissimi dei luoghi che ho visitato durante il mio ultimo viaggio in India e da cui avrei potuto forse trarre ispirazione o semplicemente qualche informazione in più. Niente di male tuttavia: secondo il mio punto di vista, avere troppe informazioni prima della partenza, può essere controproducente; lasciare che il luogo mi stupisca e mi sorprenda con cose di cui non ho mai sentito parlare né mai visto una foto è invece quello che preferisco.

Lo stato del Gujarat diciamo che a questo ben si presta: se ne sente infatti parlare ben poco e a meno a che non ci si informi di proposito, è raro che le notizie a riguardo ci piovano dal cielo. Seguendo questa filosofia dello “scoprire strada facendo”, allora sono almeno tre i luoghi che in questo ultimo viaggio in Gujarat mi hanno sorpreso e stupito perché di loro non conoscevo praticamente nulla: Junagadh, Mandvi e Diu Island.

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1. MANDVI

Mandvi è facilmente raggiungibile tenendo come base la città di Bhuj. Dalla stazione degli autobus prendete la prima corriera in partenza: la distanza tra le due località è di 59 km, il costo di 35 rupie e il tempo di percorrenza di circa 1h30.

Mandvi

Mandvi

Situata come Bhuj nella regione del Kutch ma affacciata al Mare Arabico, Mandvi è una piccola località punteggiata da splendidi edifici d’epoca color pastello e famosa ancora oggi in diversi paesi del mondo per il suo rinomato cantiere navale. Imbarcazioni di legno che possono superare i 20 metri di lunghezza vengono qui costruite da oltre 400 anni grazie alla tecnica non comune di centinaia di operai e maestri d’ascia che utilizzano un robusto legname (teak o iroko) proveniente dalla Malesia.

Mandvi

Fondata nel 1574 come un importante città portuale – la più importante prima dell’ascesa di Mumbai – Mandvi, nel corso della storia, superò in ricchezza la città di Bhuj costituendo un importante punto di transito soprattutto lungo le rotte vie mare: qui le imbarcazioni arrivavano dall’Africa, dal Golfo Persico, dalla Costa del Malabar (odierno Kerala) e anche dal Sud-Est Asiatico e ancora oggi diversi paesi si servono del cantiere navale di Mandvi per le loro flotte di pescherecci.

Mandvi

Per pranzo potete fermarvi in centro per un thali all’Osho Hotel oppure camminare fino alla spiaggia dove, nell’unica struttura turistica che troverete, c’è anche il ristorante.

A pochi chilometri da Mandvi, con una breve corsa in tuk tuk potrete raggiungere inoltre il Vijay Vilas Palace, la residenza estiva dei regnanti del Kutch datata 1929, oggi utilizzata per lo più come set cinematografico. Circondata da un immenso giardino, è il luogo ideale dove riprendersi un po’ dai rumori del traffico prima di fare ritorno a Bhuj.

Mandvi - Vijay Vilas Palace Mandvi - Vijay Vilas Palace Mandvi - Vijay Vilas Palace

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2. JUNAGADH

Se da Bhuj siete diretti sulla costa meridionale del Gujarat o verso il Gir National Park, Junagadh costituisce un interessante tappa intermedia. Da Bhuj c’è solo una compagnia di autobus privati che offre il servizio diretto notturno e al momento del mio viaggio si trattava della Jai Somnath. Chiedete comunque alle varie agenzie che si trovano in zona Bus Stand e vi verrà sicuramente detto.

Girnar Hill

Molti sono i pellegrini sia hindu che jaina che arrivano fin qui per intraprendere la scalata dei quasi 10.000 gradini della Girnar Hill e raggiungere stremati i templi che si trovano sulla sua sommità ma a parte questo la cittadina offre altro: un fatiscente quanto pittoresco centro storico, un suggestivo forte in rovina e due meravigliosi mausolei, anch’essi abbandonati al loro destino ma di incredibile fascino.

Junagadh

Mahabat Maqbara, così si chiama il sontuoso mausoleo del nawab Mahabat Khan II, affiancato da quello del vizir, ancor più decorato. Due sontuosi esempi di architettura euro-indo-islamica che si trovano proprio accanto alla moschea dove potrete andare a chiedere le chiavi nel caso in cui doveste trovare il cancello chiuso.

Junagadh Junagadh Junagadh

Un consiglio logistico: per visitare Junagadh e i suoi monumenti vi basteranno a dir tanto 3 ore. A meno che non siate arrivati fin qui per salire sulla collina sacra – in questo caso vi converrebbe aspettare la mattina successiva per cominciare all’alba – perdere troppo tempo da queste parti non ne vale davvero la pena. Se, come me, avete intenzione di raggiungere Junagadh partendo da Bhuj, sappiate che il vostro autobus, salvo imprevisti, raggiungerà destinazione molto presto, verso le 5.30 del mattino e vi converrà dunque aver già prenotato un hotel. Il Relief Hotel di Junagadh è un’ottima soluzione ma sappiate che per entrare a quell’ora vi farà pagare comunque la metà del costo dell’intera notte permettendovi di tenere la camera fino alle ore 12. Se avete riposato abbastanza, vi siete fatti una doccia e visti i monumenti, non ha senso dunque trattenersi oltre in città. Fossi in voi piuttosto prenderei un autobus diretto a Somnath (circa 2 ore al costo di 56 rupie) dove si trova uno dei templi più sacri del Gujarat e dell’India intera. Trovata una stanza mi godrei quindi, a partire dal tardo pomeriggio, l’atmosfera di questo sentito luogo di pellegrinaggio. Nell’edificio di fronte alla stazione degli autobus di Junagadh, all’ultimo piano, c’è un ottimo ristorante dove potrete rifocillarvi prima di partire per Somnath.

Somnath

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3. DIU ISLAND

Scrive Stefano Cotone nel suo libro: “Diu è stata l’ultima terra d’Europa in India che insieme a Daman controllava lo stretto di Cambay e con la lontana Goa costituiva la terna portoghese. Nel 1961 gli indiani con un colpo di mano se ne sono impossessati. Riconquistata si direbbe.”

Diu è un’isola, un mondo appartato con un’identità non ben definita: è tutto così ordinato e pulito che quasi non sembra di essere in India; le chiese e le case coloniali farebbero più pensare ad un villaggio del Portogallo ma qui nessuno parla il portoghese né tanto meno sembra conoscere esattamente i fatti che riguardano la propria storia, seppur non molto lontana. Chiedendo dunque a qualcuno qual’è la parola che definisce meglio questo mondo isolato dalla terraferma per soli pochi chilometri di mare, è quasi sicuro che vi risponderanno “whisky!”; sì perché Diu è  l’unico posto nel Gujarat proibizionista dove è permessa la vendita di alcolici.  Per evitare scene raccapriccianti di uomini ubriachi e giovani molesti sarebbe dunque meglio evitare di capitarci durante il weekend.

Diu

A parte visitare la zona del forte portoghese da cui avrete delle viste spettacolari sulla costa frastagliata dell’isola e a parte perdersi tra le viuzze della città vecchia per  raggiungere le chiese o passeggiare sul lungo mare della zona turistica, quello che a mio avviso è valso veramente la pena di arrivare fin qui, è stata l’escursione al villaggio di Vanakbara, situato nella parte opposta dell’isola.

Diu

Un piccolo villaggio di pescatori dove rimanere affascinati guardando lo svolgersi delle attività commerciali e di riparazione delle centinaia di barche variopinte che al mattino rientrano al porto per mettere in vendita il pescato. Un tripudio di colori in un angolo di India praticamente sconosciuto al turismo di massa e a cui, a maggior ragione, vale la pena di dedicare del tempo. 

Diu Diu Diu Diu Diu

Ah, dimenticavo: di seguito una foto della mia Guest House sull’isola di Diu. Ebbene sì, trovando posto potrete anche pernottare nell’edificio della vecchia Chiesa portoghese di San Tommaso, oggi sconsacrata. La vista dalla terrazza è forse la più bella della città!

Diu

Bundi: il Rajasthan nascosto e fuori rotta

Bundi: il Rajasthan nascosto e fuori rotta 1024 682 Sonia Sgarella

Bundi è tutto quello che dell’India raramente vi hanno detto ovvero che può essere un paese tranquillo dove a volte ci si riesce anche a rilassare. Traffico e confusione non sono certo le caratteristiche principali di questa piccola città del Rajasthan immersa nella cornice dei Monti Aravalli dove chi ci arriva, finisce di solito col volerci passare più giorni del previsto, rapito dall’atmosfera di rilassatezza e familiarità che la contraddistingue.

A Bundi difficilmente ci si capita per caso. Arrivarci o meno è una scelta intenzionale che spesso implica il dover rinunciare ad altre tappe più famose dello stato, cosa che non tutti sono disposti a fare. Sarà quindi forse per questo o per il fatto che in tanti ne ignorano addirittura l’esistenza, che la città di Bundi non richiama ancora grandi folle di visitatori, conservando quindi un sapore autentico, lontano dalle dinamiche turistiche che invece impazzano altrove.

Bundi è il Rajasthan nascosto che non ha niente da invidiare ad altre mete più gettonate: ha le case dipinte di cielo come quelle di Jodhpur, un lago come quello di Pushkar, un palazzo come Udaipur, un forte in rovina, un vivace bazar, i templi, le mucche; insomma a Bundi non manca davvero niente, anzi, conserva oltretutto dei dipinti murali unici, tra i più belli mai visti in India e, nei suoi dintorni, addirittura delle incisioni rupestri risalenti all’epoca preistorica.

Bundi

Bundi

Bundi Bundi

Per raggiungere Bundi basta prendere qualsiasi treno diretto a Kota o, in alternativa, un autobus governativo che, con massimo 5 ore di viaggio, la collega, per esempio, a Jodhpur, Jaipur e Ajmer (vicino a Pushkar). Dalla stazione dei treni di Kota Junction prendete un autorickshaw per il Bus Stand (70 rupie) e da lì, salite sul primo pullman diretto a Bundi. Il tragitto dura circa 45 minuti ed ha un costo di 25 rupie.

Le strutture ricettive si concentrano tutte nella zona del lago artificiale conosciuto con il nome di Nawal Sagar, nel lato opposto della città rispetto alla stazione degli autobus, in posizione estremamente tranquilla e silenziosa nonché a due passi dal palazzo e dal forte. Con un autorickshaw e 50 rupie arriverete a destinazione comodi comodi. Io ho pernottato alla Raj Mahal Guest House che vi consiglio per l’ottimo rapporto qualità prezzo (fatevi dare una stanza con vista lago) ma anche per la vicinanza al miglior ristorante della città, il Lake View Garden Restaurant. Il servizio è un po’ lento ma il cibo davvero spettacolare, la famiglia che lo gestisce molto carina e la posizione senza dubbio impareggiabile!

A meno che non arriviate tardi o siate distrutti dal viaggio, approfittate delle ore di luce che avete a disposizione il primo giorno per cominciare ad esplorare le strette stradine della città: azzurro, indaco e violetto sono i colori che la fanno da padrone, quelli che rendono Bundi ancora più accogliente di quanto già non sia. Disegni murali decorano le facciate delle haveli che si sviluppano in bellissimi cortili dove il tempo sembra essersi fermato, testimonianza di un antico splendore.

Bundi

Bundi Bundi Bundi

Spingetevi in direzione del Sadar Bazar, ovvero ripercorrete in parte la strada che avete seguito con il tuk tuk per raggiungere la guest house (praticamente l’unica esistente). Man mano che vi avvicinerete alla porta d’ingresso della città, il Chogan Gate, vedrete il sostituirsi dei negozi più turistici con quelli che invece non lo sono per nulla: venditori di cotone, di libri per la scuola, di bracciali (bangles) per signora e poi, qua e là, qualche tempio e baretto dove fermarsi a prendere un tè.

Bundi Bundi

Se siete amanti del chai non potete perdervi di certo una tappa da Krishna, un maestro nella preparazione! Lo troverete sicuramente accovacciato vicino al fornello intento a macinare spezie o a travasare latte bollente da un pentolino all’altro: un uomo di poche parole (non parla l’inglese quasi per niente) ma uno che con i suoi sguardi riesce ad esprimere tutta l’essenza di Bundi, una città dove il visitatore viene accolto come un amico, non come un possibile acquirente da spennare!

Krishna's Chai - Bundi

Il secondo giorno potete dedicarlo alla visita del forte, del palazzo, dei baoli e del lago Jait Sagar, dove si trova il Sukh Mahal, la residenza che per un breve periodo ospitò lo scrittore Rudyard Kipling il quale ivi trovò ispirazione per la stesura di Kim, uno dei suoi capolavori. ” Quello del Libro della Giungla” vi diranno tutti, così che anche non avendone mai sentito parlare, chiunque sappia a chi ci si sta riferendo.

Svegliatevi di buona mattina, fate colazione e dirigetevi verso il palazzo dove, all’ingresso, potrete acquistare anche il biglietto per il forte. Il costo complessivo se siete muniti di macchina fotografica sarà di 300 rupie. Cominciate a salire con l’obiettivo di fare prima tappa al Forte di Taragarh che si trova in cima alla collina alle spalle del palazzo. Seguite le indicazioni e aspettatevi che qualcuno vi venga a importunare per farvi da guida ma sappiate che chiunque sia il giovanotto il giochetto è sempre lo stesso: cercare di convincervi che sia molto facile perdersi e che continuare da soli sia pericoloso per la presenza di scimmie aggressive. Sapete, conosco gli indiani da ormai qualche anno e so quante cavolate sono disposti a raccontare per depistare il turista (non che siano gli unici!): le scimmie ci sono, è vero, ma basta munirsi di un bastone, non dargli fastidio e non portare con se cose da mangiare perché vi lascino stare. Per quanto riguarda il perdersi poi, non è neanche da mettere in conto essendoci un unico sentiero. Se l’ho fatto io che ero da sola penso lo possa fare chiunque. Attenzione, con questo non sto dicendo che la presenza di una guida non possa essere piacevole (lavoro come accompagnatore turistico e sarebbe una contraddizione se io lo pensassi!) ma che, se ne volete una, magari sarebbe meglio rivolgersi alla biglietteria. Dall’alto del forte che si estende su un’area boschiva quasi praticamente abbandonata a sé stessa, le viste sul palazzo, sulla città, sui Monti Aravalli e sul lago Jai Sagar sono spettacolari. Per arrivare fin qui meglio che indossiate pantaloni lunghi e scarpe con suola abbastanza spessa perché le spine dei rovi sono seriamente grosse e appuntite!

Bundi

Bundi Bundi

Bundi

Bundi

Riscendiamo ora verso il palazzo. Come vi dicevo prima, quando si sente parlare della “Terra dei Re”, ovvero del Rajasthan, i primi luoghi che vengono in mente sono Jaipur, la città rosa, Jodhpur, la città blu, Udaipur, la città bianca, Jaisalmer, la città nel deserto; mai si sente parlare di Bundi. Eppure se ora mi chiedete quale sia la mia città preferita dello stato vi risponderei proprio Bundi!

Bundi fu la capitale del piccolo regno di Haravati, governato dai discendenti di uno dei clan rajput tra i più rispettati, quello dei Chauhan che prese potere intorno alla metà del XIV secolo. Un labirinto di terrazze, di padiglioni e di sale meravigliosamente decorate con affreschi unici che rappresentano scene di corte o della mitologia riguardante la vita di Krishna, rendono questo luogo degno della descrizione che ne fece Rudyard Kipling il quale lo definì “un’opera dei folletti piuttosto che dell’uomo”

The palace of Bundi, even in broad daylight,

is such a palace as men built for themselves in uneasy dreams

– the work of goblins rather of men.

(Rudyard Kipling)

Il color turchese e il verde acqua prevalgono su tutte le altre tonalità, le miniature sono dei capolavori, l’architettura del palazzo nel suo complesso è in perfetto stile rajput e si adatta meravigliosamente alla morfologia della collina su cui sorge: insomma stiamo parlando del fiore all’occhiello di Bundi, del luogo che sarà capace di farvi sognare immaginando i tempi passati e tutto quello che poteva essere la vita al suo interno. Si racconta di un tesoro nascosto in passaggi segreti che mai nessuno fu in grado di trovare, di re, regine, di arte e seduzione: Bundi è una città magica ed eccovi una carrellata di immagini di quello che vi aspetta!

Bundi Palace Bundi Palace Bundi Palace

Bundi Palace

Bundi Palace Bundi Palace

Bundi Palace

Bundi Palace

Bundi Palace Bundi Palace Bundi Palace

Dopo pranzo potete proseguire la visita con i pozzi della città, in particolare con il Nagar Sagar Kund, il Raniji-ki-baori e il Dhabhai Kund. Utilizzati da sempre per la raccolta delle acque piovane, alcuni di questi venivano utilizzati anche per celebrazioni religiose e quindi abbelliti come se fossero templi capovolti. Il Raniji-ki-baori, per il quale si paga un ingresso di ben 200 rupie, venne commissionato nel 1699 dalla regina Nathavati Ji, la più giovane tra le consorti dell’allora ex regnante Rao Raja Anirudh Singh.

Dhabhai Kund - Bundi Raniji-ki-Baori - Bundi Dhabhai Kund - Bundi

Una volta a Bundi è molto probabile che sentirete parlare del signor Kukki o che, frequentando il Lake View Garden Restaurant, addirittura lo incontrerete. Si tratta di colui che, divertendosi fin da bambino a fare l’archeologo pur non avendo mai studiato per ricoprire un tale ruolo, ha scoperto nei dintorni della città una serie innumerevole di pitture rupestri risalenti all’epoca preistorica. Intrepido, appassionato, divertente ed entusiasta sarà lui – o suo figlio – a potervi accompagnare alla scoperta di queste meraviglie antiche. Vi basterà chiedere le sue disponibilità e se possibile unirvi ad un gruppetto già in partenza per dividere il costo del taxi di 1.500 rupie. L’escursione durerà circa 5/6 ore e vi porterà a ridosso di un profondo e bellissimo canyon dove, al riparo di grotte naturali, si trovano alcuni di questi interessanti dipinti. Pace e silenzio vi accompagneranno per tutto il percorso che si svolgerà in parte a piedi ( circa un’ora tra andata e ritorno) attraverso una desolata pianura semi-arida.

Rock paintings -Bundi

Rock paintings -Bundi Rock paintings -Bundi

Nei dintorni è poi possibile ammirare i resti di quello che si pensa potesse essere un antico tempio: la statua nel Nandin, il toro di Shiva, ne sarebbe la prova. Accanto ad essa un altro reperto ritrovato da Kukki, un meraviglioso lingam risalente, secondo gli studi, all’epoca Gupta, ovvero circa al V-VI secolo!

Rock paintings -Bundi

Rock paintings -Bundi

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Davvero credo di avervi dato abbastanza buone ragioni per visitare Bundi ma ora sta a voi decidere se siete pronti ad abbandonare per qualche giorno l’itinerario turistico ed andare fuori rotta. Io dico che non ve ne pentireste!

Deserti di sale

Deserti di sale 1024 690 Sonia Sgarella

Chiudete gli occhi e pensate al deserto. Qual’è la prima immagine che vi viene in mente? La maggior parte degli italiani – basta fare una breve ricerca su Google – tende ad associare questa parola all’immagine dei deserti africani, alle dune di sabbia color ocra scolpite dal vento, alle oasi, ai cammelli, ai beduini. Niente di strano ovviamente: in una visione Europa-centrica, i deserti africani sono quelli a noi più vicini e quindi, proprio per questo, i primi a cui rivolgiamo il nostro pensiero.

Marocco - Dune di sabbia di Merzouga

Marocco – Dune di sabbia di Merzouga

Provate però a cambiare zona geografica e a chiedere, per esempio, ad un abitante del Gujarat, in India, di che colore è per lui il deserto e vedrete che la risposta sarà completamente diversa. “Bianco!”, vi dirà, perché bianco è il colore del sale che ricopre quell’immensa e desolata distesa di terra conosciuta con il nome di White Desert. Siamo ai confini con il Pakistan, nell’estremità occidentale del paese, là dove, durante la stagione secca, le acque di un’immensa palude salata evaporano per il calore, lasciando emergere in superficie i sedimenti salini che altrimenti rimarrebbero sommersi. Il Great Rann of Kutch – così lo chiamano localmente – è un luogo leggendario in cui finalmente sono riuscita a mettere piede quest’anno! Devo ammetterlo, pensavo che raggiungerlo sarebbe stata un’impresa molto più ardua e invece, sarà per l’abitudine ai mezzi e alle distanze indiane, arrivarci mi è sembrato un gioco da ragazzi. Punto di partenza per la visita al White Desert è la piccola città di Bhuj, molto carina, piacevole e per nulla “avamposto” come invece uno si aspetterebbe guardando alla sua posizione sulla mappa dell’India.

Dalla stazione degli autobus di Bhuj, in concomitanza con la durata del Rann Utsav (di cui vi parlerò tra poco), ogni giorno alle 9.30 (indian time!) parte un bus governativo alla volta del White Desert. Dite che siete diretti a Dhordo e vi indicheranno dove andare. Il bus, trasformato per l’occasione in pullman turistico è a tutti gli effetti un servizio organizzato apposta per portare e riportare in città il gruppo vacanze che nel frattempo si è formato a bordo: l’atmosfera è quella di una vera e propria gita in cui il controllore, oltre a vendere i biglietti, assume il ruolo di tour leader, dando gli orari e i luoghi di incontro. La distanza tra Bhuj e il deserto è di 82 km e il costo del biglietto di 81 rupie (162 a/r). A circa metà strada tutti i passeggeri dovranno scendere dal pullman, mostrare i documenti alle “autorità” e acquistare il permesso di entrata (100 rupie). Trattandosi di zone di confine è obbligatorio essere in possesso di tali permessi per cui ricordatevi di portare con voi il passaporto!

L’ambiente si fa sempre più arido, gli arbusti sempre più bassi ed ecco che improvvisamente appare! Che cosa, il deserto? No! Ecco la pataccata indiana, il mega allestimento per il Rann Utsav che si tiene ogni anno da novembre a febbraio. Una fiera dell’artigianato, ecco di cosa si tratta. Tendoni, bancarelle, prodotti d’artigianato provenienti dai villaggi della regione, cibo, bevande, il tutto in grande stile. Cavolo ero venuta nel deserto in India e mi ritrovo invece a Rho-Fiera! Ebbene si, questa è l’India, quella che ti sconvolge, quella dove è meglio arrivare sempre privi di aspettative, pronti a prendersi quel che c’è! Al festival ci torneremo nel pomeriggio dove ci verrà data un’ora di tempo libero.

Runn of Kutch - India

Proseguiamo quindi fino al White Desert che finalmente incomincia a vedersi in lontananza ed è l’attrazione di punta: carretti trainati da cammelli che portano avanti e indietro chi proprio non ha voglia di farsi a piedi quei circa 2 km che dal parcheggio permettono di raggiungere la distesa di sale. Non se ne vede la fine, lo spettacolo del Rann of Kutch che si estende a perdita d’occhio verso il Pakistan è meraviglioso. Allontanatevi dalla folla camminando sul sale e riuscirete a sentirne il silenzio. Godetevi la bellezza di questo angolo remoto dell’India: il conduttore/tour leader vi ha dato due ore! 🙂

Runn of Kutch - India

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Ora, già che ci sono e visto che il bianco li accomuna, vi accennerò ad altri due meravigliosi deserti che trovate in Sud America, uno in Bolivia e l’altro in Brasile: mi riferisco al Salar de Uyuni e al Parque Nacional dos Lençóis Maranhenses.

Salar de Uyuni

Era dicembre 2006 quando, all’età di 22 anni, mi ritrovai, quasi per caso, ad attraversare la più grande distesa di sale del pianeta. Incredibile è per me costatare come, nonostante il tempo passato, il ricordo di questi luoghi rimanga ancora vivido nella mia memoria. Non avevo gli occhiali da sole e mi ricordo benissimo di quanto la luce riflessa sul bianco del sale fosse accecante, era quasi impossibile tenere gli occhi aperti e se ci ripenso mi viene ancora da chiuderli. Una distesa bianca e infinita, l’orizzonte che si perde insieme all’orientamento, un paesaggio surreale figlio di migliaia di anni di sedimentazione. Circondata da montagne che da lontano appaiono come un miraggio, la pianura salata più vasta del mondo che si estende ad un’altezza di 3.653 metri, faceva parte, insieme al Salar de Copaisa, di quel sistema di laghi che oltre 10.000 anni fa ricoprivano tutta la regione. Non essendoci sbocco verso il mare, l’acqua proveniente dalle montagne si riversava infatti in questo immenso bacino il quale, prosciugandosi, lasciò sul fondo grandissimi depositi di sale.

Salar de Uyuni - Bolivia

Per attraversare il Salar de Uyuni è necessario unirsi ad un tour in 4×4, in partenza da Uyuni stessa oppure da Tupiza – più comoda se siete in arrivo dall’Argentina. I tour di solito hanno una durata di 3 giorni e 2 notti e possono essere organizzati direttamente in loco (anche la mattina stessa prima della partenza dei tour prevista di solito attorno alle 10.30) in una delle decine di agenzie che offrono quasi tutte lo stesso pacchetto. Suppongo che i costi dal 2006 ad oggi siano cambiati ma se allora pagammo 55 US$ a testa per tutto il tour (in una jeep da 6), credo che adesso il prezzo corretto si debba aggirare intorno ai 70/80 US$ al massimo.

Salar de Uyuni - Bolivia

Le tappe fondamentali nonché quelle seguite da tutte le jeep, sono le seguenti: Cimitero dei Treni, Hotel di Sale, Isola Incahuasi con i suoi cactus giganti, San Juan Bautista, Laguna Colorada, Gyser de Sol da Mañana, Laguna Verde e Arbol de Piedra. Con tutto questo arriverete a toccare gli oltre 5000 metri e a pernottare a oltre 4000. Ciò che è logico ma che spesso non viene reso esplicito in fase di prenotazione (soprattutto se fatta di fretta la mattina stessa) è che a 4.000 metri di notte la temperatura può scendere fino a -20° e che negli hostal non c’è riscaldamento. Detto questo è quindi fondamentale portarsi vestiti leggeri per il giorno – quando si possono raggiungere anche i 20° – ma molto caldi per la notte e se avete con voi un sacco a pelo portate anche quello (comunque gli hostal sono forniti di coperte pesanti). A questo aggiungete però anche il costume che vi servirà per fare il bagno nelle sorgenti di acqua termale a 40°. Fate conto di non lavarvi per tre giorni (se non in questa occasione) e quindi munitevi di salviettine igieniche. Occhiali da sole, una torcia per la sera (dopo le 21 rimarrete senza corrente), batterie di scorta per la macchina fotografica (che non avrete modo di caricare) e medicinali vari (soprattutto prodotti per liberare il naso qualora aveste difficoltà a respirare) è tutto ciò che vi sarà sicuramente utile.

Salar de Uyuni - Bolivia

Vi sono due scuole di pensiero su quale sia il periodo migliore per recarsi al Salar de Uyuni: una dice che sia molto meglio durante la stagione delle piogge (novembre-marzo) quando, ricopertosi di un sottile strato di acqua si trasforma in uno specchio tale da non riuscire più a distinguere la terra dal cielo; in questo caso però dovete mettere in conto di non poter svolgere il tour completo in quanto il terreno diventa impraticabile per le jeep che non si addentrano più di tanto. La seconda scuola di pensiero preferisce invece la stagione secca (agosto-ottobre) quando, pur mancando lo spettacolo dello specchio d’acqua, è possibile percorrerne la superficie. I mesi che vanno da aprile a luglio vengono considerati da evitare per via delle temperature troppo basse. Io vi dico, ci sono stata alla fine di dicembre che dovrebbe essere piena stagione delle piogge, eppure ho trovato l’ambiente completamente secco, non incontrando quindi problemi a svolgere il tour completo. Il consiglio? Fate come si farebbe in India: partite senza aspettative e prendete quel che c’è…sarà comunque un’esperienza indimenticabile!

Parco Nazionale dos Lençóis Maranhenses

Passiamo ora al Brasile: era lo stesso anno della Bolivia, il 2006, quando, ancora all’inizio di un viaggio che sarebbe durato più di tre mesi, mi ritrovai a calpestare la sabbia fine di dune bianchissime, quelle del Parco Nazionale dos Lençóis Maranhenses, un paesaggio che mai avrei pensato potesse esistere. Ero alle prime armi come viaggiatrice, avevo appena cominciato a scoprire le meraviglie di questo mondo ed ecco che subito mi ritrovo davanti agli occhi qualcosa di spettacolare.

Parque Nacional dos Lençóis Maranhenses, Brasile

“Le lenzuola del Maranhão”, lo stato a nord-ovest del Brasile con capoluogo a São Luís, sono onde di sabbia che si distendono a perdita d’occhio creando un ambiente quasi surreale, costellato da pozze di acqua cristallina che si formano durante la stagione delle piogge. Ebbene si, nonostante in tanti lo chiamino deserto, tecnicamente la definizione non è corretta in quanto la pioggia qui cade eccome, superando i 1200 mm l’anno. L’acqua costituisce l’elemento fondamentale per la formazione di un tale ambiente: due fiumi vicini, il Parnaíba e il Preguiças, trasportano infatti la sabbia dall’interno del continente fino all’Oceano, dove le correnti la sospingono verso ovest. Gran parte dei sedimenti si deposita lungo i 70 chilometri di costa del parco dove, durante la stagione secca, un implacabile vento nordorientale spinge la sabbia verso l’interno, fino a 48 chilometri di distanza.

Parque Nacional dos Lençóis Maranhenses, Brasile

Tra gennaio e giugno le piogge riempiono le valli tra le dune di acqua, formano delle lagune da sogno in cui nuotano banchi di pesci argentati arrivati fin lì nel periodo più piovoso, quando le lagune si collegano ai fiumi che attraversano il parco. Nelle stesse lagune potrete fare il bagno anche voi. Per raggiungere il parco dovrete recarvi a Barreirinhas (260 km ad ovest di São Luís), una piccola e piacevole cittadina dove non sarà difficile trovare una sistemazione per la notte e dove, tramite qualsiasi agenzia del posto potrete organizzare la visita alle dune, effettuata esclusivamente in 4×4.

Avete visto che meraviglia? E voi, conoscete altri deserti bianchi da aggiungere alla lista?

I giganti di pietra del forte di Gwalior

I giganti di pietra del forte di Gwalior 1024 682 Sonia Sgarella

Dici Gwalior e sembrerebbe che in pochissimi sappiano dove si trovi; non sto parlando ovviamente di chi in India non c’è mai stato, sarebbe comprensibile, ma di chi l’India l’ha visitata più volte. Di queste persone ne ho incontrate tante: tutti sono stati in Rajasthan, tutti sono passati dal Taj Mahal, tutti si sono persi nell’atmosfera senza tempo di Varanasi, qualcuno ha anche visitato i templi di Khajuraho e si è goduto la tranquillità di Orcha; eppure quasi nessuno si è accorto che sulla mappa, proprio lì, tra queste principali rotte turistiche, si trova la città di Gwalior, una bellezza che in tanti si perdono e che giunge inaspettata per chi invece le dedica del tempo. Ammassata ai piedi di un’immensa rupe di roccia calcarea che domina il panorama della città, Gwalior non solo costituisce un’ottima tappa intermedia lungo il percorso ma vale la pena a prescindere e vi stupirà per il fantastico patrimonio artistico/culturale di cui è custode.

Gwalior Fort

A Gwalior, si dice, tutto cominciò con un re, un saggio ed un miracolo: c’era una volta infatti, racconta la leggenda,  un principe di nome Suraj Sen, della dinastia Rajput dei Kushwaha, che giunse fino alla cima di questo immenso altipiano durante una battuta di caccia. Assetato, il principe chiese un po’ d’acqua al saggio Gwalipa, che incontrò strada facendo e il quale, colpendo una roccia, ne fece sgorgare una sorgente di acqua fresca. Suraj Sen non solo bevve ma ne approfittò per rinfrescarsi senza sapere che quell’acqua miracolosa lo avrebbe curato dalla lebbra che gli affliggeva la pelle. Incredulo ai suoi occhi ed estremamente riconoscente nei confronti di Gwalipa, Suraj Sen chiese al saggio come avrebbe potuto ripagarlo dell’aiuto. Egli rispose: “crea una vasca per quest’acqua curativa e fai di questo luogo la tua capitale”. Così fece Suraj Sen nominando la nuova città Gwaliawar, “il regalo del saggio Gwalipa” che da qui cominciò la sua storia di ascesa e di successo.

Per raggiungere l’epoca d’oro di Gwalior bisognerà però aspettare ancora qualche secolo quando, a partire dal 1398, dopo un periodo di dominazione turca, il comando della città tornò nelle mani di un clan Rajput, quello dei Tomar. Fu infatti Man Singh Tomar (1486-1516), il quale commissionò la costruzione del meraviglioso Man Singh Palace – a detta dell’esploratore Cunningham “il più nobile esemplare di architettura domestica dell’India del Nord”- che fece guadagnare al Forte di Gwalior l’appellativo di “perla tra le fortezze dell’India”. Effettivamente il Chit Mandir, “il palazzo dipinto”, incanta il visitatore non solo per l’imponenza e per la sua posizione, ma soprattutto per la vivacità dei mosaici in ceramica che ne decorano le facciate, a partire da quelle in prossimità della Porta degli Elefanti (Hatiya Paur Gateway).

Man Singh Palace - Gwalior Man Singh Palace - Gwalior Man Singh Palace - Gwalior Man Singh Palace - Gwalior

Il modo migliore per approcciare il Forte di Gwalior è quello di risalire il versante della collina accedendo dalla porta principale (Kila Gate o Gwalior Gate): innalzandovi lentamente di quota vi si apriranno infatti degli scorci magnifici sulla città e inoltre manterrete la giusta prospettiva sul palazzo che si svelerà a poco a poco davanti ai vostri occhi, man mano che vi avvicinerete.

Gwalior Fort Gwalior Fort Gwalior Fort

Lungo il percorso vi troverete di fronte a qualcosa di veramente interessante: un cartello vi indica la direzione per raggiungere lo “Zero più antico”, ovvero il punto in cui il numero zero si trova rappresentato, per la prima volta nella storia, nell’attuale forma numerica – tanto per intenderci come un tondino. Un’epigrafe custodita all’interno di un piccolo tempio risalente al IX secolo d.C. – il Chaturbhuj Temple – dimostrerebbe quindi che lo zero, che noi conosciamo come numero arabo, sia stato invece una creazione indiana. Impossibile definire dove, quando e da chi esattamente venne inventato ma fatto sta che quella di Gwalior risulti essere l’iscrizione databile più antica. Chiedete al custode di aprirvi la cella del tempio e guardate alla destra di Vishu: provate ora a cercare tra quelle lettere incomprensibili il numero 270. Vi stupirete nel vedere quanto questo assomigli ai nostri caratteri numerici!

Chaturbhuj Temple - Gwalior Chaturbhuj Temple - Gwalior Chaturbhuj Temple - Gwalior

Pagato quindi il biglietto d’ingresso al palazzo, accedete al cortile principale dove ad incantarvi saranno i rilievi sulle colonne e le griglie perforate dietro alle quali si nascondevano le donne per assistere agli spettacoli musicali senza essere viste. Nonostante gli interni risultino molto più sobri, anche qui si ritrovano splendide decorazioni in ceramica che donano vivacità e colore alla pietra di questo palazzo il quale venne abitato successivamente da alcuni imperatori Mughal, che ne trasformarono i piani sotterranei in prigioni reali.

Man Singh Palace - Gwalior Man Singh Palace - Gwalior Man Singh Palace - Gwalior Man Singh Palace - Gwalior

Continuate ora verso i Templi Sasbahu che troverete con circa 15 minuti di cammino lasciandovi il palazzo alle spalle e proseguendo oltre il chiosco delle bevande, mantenendo sempre la sinistra. Risalenti all’XI secolo, i templi sono riccamente decorati e ricordano nello stile alcuni santuari del Gujarat tanto che gli studiosi concordano oggi sul fatto che gli artisti dovessero provenire proprio da quella zona dell’India. Dai templi, che sono un luogo di pace e per nulla frequentato, vi si apriranno delle viste magnifiche sulla città.

Sasbahu Temples - Gwalior Sasbahu Temples - Gwalior Sasbahu Temples - Gwalior

Sasbahu Temples - Gwalior

Ora volendo continuare con la visita dei templi all’interno del forte potreste proseguire fino al Gurudwara Data Bandi Chhod e al Teli Ka Mandir ma se siete stanchi, affamati e il sole comincia ad essere troppo forte, ritornate verso il chiosco delle bevande a da lì prendete la strada in discesa che conduce fino alla Porta Urwahi. E’ proprio qui, lungo il percorso, che realizzerete quanto sia valsa la pena fermarvi per una visita a Gwalior: se di palazzi e di templi infatti ne avrete già visti una serie infinita, di trovarsi di fronte a giganti di pietra non capita tutti i giorni!

Scavati nella roccia sui versanti delle montagne che formano la Valle di Urwahi, le imponenti statue monolitiche dei 24 santi Jainisti, i cosiddetti Thirthankara (“Costruttori di Guado”), sono uno spettacolo che vi lascerà increduli ed entusiasti al tempo stesso: la più alta raggiunge i 19 metri e rappresenta Adinath, il “Signore del Principio”, in posizione eretta, mentre ve ne sono altre che li vedono seduti nella classica “posizione del loto”. Gli studiosi oggi concordano nel datare attorno al XV secolo questa grandiosa opera d’arte che fu molto probabilmente commissionata da una regina Tomar la quale fu una fedele Jaina o forse, più semplicemente, rimase affascinata da questa religione tutta incentrata sul concetto della non-violenza.

Jain Statues - Gwalior Jain Statues - Gwalior Jain Statues - Gwalior Jain Statues - Gwalior

Dove dormire: in zona stazione vi sono diverse opzioni. Io sono stata all’Hotel Mayur che fa parte del gruppo OYO Rooms. 550 Rupie la singola.

Dove mangiare: decisamente da provare per colazione e pranzo è l’Indian Coffe House, su Station Road. Aperto fino alle 19.00.

L’incanto di Orchha

L’incanto di Orchha 1024 684 Sonia Sgarella

Sono arrivata ad Orchha in un pomeriggio di primavera, quando ancora la campagna del Madhya Pradesh è punteggiata dai meravigliosi fiori arancioni degli alberi di Palash; sono arrivata ad Orchha perché mi avevano detto che mi sarebbe piaciuta ma mai avrei pensato di rimanerne così affascinata.

Albero di Palash - Orchha

Un piccolo villaggio dove dimenticarsi per qualche giorno dei mezzi di trasporto, non perché non ve ne siano ma perché non ne avrete bisogno. Tutto ad Orchha è facilmente raggiungibile a piedi: il fiume, i templi, i palazzi e i cenotafi; ad Orchha vedrete l’incanto dei tempi passati rivivere nella roccia dei suoi monumenti i quali raccontano una storia, quella dei sovrani della dinastia Bundela e delle loro regine.

Cominciate presto al mattino, esattamente alle 8 (o alle 9 se da ottobre a febbraio), quando all’interno del Ram Raja Temple si riuniscono i devoti per la puja al dio Rama. Racconta la leggenda che questo splendido edificio piastrellato con marmo bianco venne commissionato nel XVI secolo dal sovrano Madhukar Shah come palazzo per la sua regina, Rani Ganesh. Fu proprio lei, anche chiamata Kamla Devi, che di ritorno da un viaggio ad Ayodhya portò con sé l’immagine sacra del grande dio la quale, una volta appoggiata all’interno del palazzo, non poté più esserne rimossa. Il palazzo venne quindi trasformato in un tempio che costituisce oggi un importante luogo di pellegrinaggio per i devoti di Rama, settima incarnazione di Vishnu, venerato qui anche in qualità di re (raja) e insignito quindi del turbante reale. Accanto a lui la consorte Sita come regina e il fedele fratello Lakshman vestito da principe.

Rama Raja Temple - Orchha Rama Raja Temple - Orchha

A parte il Ram Raja Temple che, in quanto luogo di culto attivo, non è a pagamento, tutto il resto, ad Orchha, lo è. Il biglietto cumulativo per la visita ai monumenti può essere acquistato solo all’ingresso della cittadella, oltre il ponte Bir Singh, ad un costo di 250 rupie più 25 per l’utilizzo della macchina fotografica. Il biglietto ha la validità di un solo giorno per cui preparatevi all’esplorazione con una colazione abbondante e cominciate subito con il complesso dei palazzi reali, quando ancora le comitive di gruppi organizzati non hanno raggiunto la cittadina.

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RAJA MAHAL PALACE

Costruito sulla cima di una collinetta, il solido e squadrato palazzo reale, il primo ad essere edificato in posizione strategica sull’isola che sorge alla confluenza tra i fiumi Betwa e Jamni, costituisce un’ottima introduzione allo stile architettonico dei sovrani Bundela: grandi cortili su cui si affacciano i balconi intarsiati degli appartamenti reali e una serie di passerelle ad incastro che si innalzano fino a permettere l’accesso ai livelli più alti culminanti con meravigliosi padiglioni a cupola e torrette.

Raja Mahal - Orchha Raja Mahal - Orchha

Nonostante la struttura risulti dall’esterno estremamente sobria e priva di particolari decorazioni, basta soffermarsi ad ammirare le stanze interne e la profusione delle magnifiche pitture intonacate sulle pareti e sui soffitti, per immaginare l’opulenza che doveva trasmettere questo luogo al tempo di Madhukar Shah (1554-1592 d.c.) che qui visse insieme alle sue “favorite”. Alcuni di questi fregi, soprattutto quelli riparati dalla luce del sole, si trovano ancora ancora oggi in perfetto stato di conservazione permettendo così di riconoscere chiaramente immagini che raccontano delle numerose incarnazioni di Vishu, delle imprese di Rama e Krishna, nonché scene di caccia e momenti di festa.

Raja Mahal Paintings - Orchha Raja Mahal Paintings - Orchha

E’ inutile dirvi quanto dai livelli più alti la vista sia magnifica per cui altro non vi resta da fare che munirvi di tutto lo spirito d’esplorazione di cui siete dotati e perdervi tra i mille passaggi, divertendovi a scovare gli angoli più nascosti di questo intricato capolavoro.

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JEHANGIR MAHAL PALACE

Se l’ingresso al Raja Mahal mi aveva stupito, il primo impatto con il Jehangir Mahal mi ha lasciato letteralmente senza parole! La stessa reazione dovette evidentemente averla anche l’architetto britannico Edwin Lutyens, incaricato di progettare l’impianto urbanistico di New Delhi e che si dice aver preso ispirazione proprio da qui. Commissionato nel 1605 da Bir Singh Deo, figlio di Madhukar Shah, nonché “il più grande sovrano di Orchha”, il Jehangir Mahal venne concepito come biglietto di benvenuto per la visita a corte dell’imperatore Mughal che qui si recò in un’unica occasione. Sicuramente il più ammirato, il palazzo appare molto più ricco di decorazioni rispetto al Raja Mahal, a partire dal grandioso portale con elefanti che consente l’accesso al cortile principale.

Jehangir Mahal -Orchha

Motivi geometrici e floreali composti con piastrelle di ceramica color turchese ne decorano ancora le facciate mentre all’interno una profusione di decorazioni lignee ne abbellisce i balconi e le terrazze, sovrastati da quelle cupole a cipolla che sono caratteristica peculiare dell’architettura indo-islamica. L’insieme di tutti questi elementi esprime senz’altro un senso di straordinaria ricchezza.

Jehangir Mahal - Orchha Jehangir Mahal- Orchha Jehangir Mahal - Orchha

La vista sulla campagna sconfinata e sugli altri monumenti di Orchha, anche in questo caso, vale senza dubbio la salita ai piani più alti. Da quassù inoltre vi farete un’idea più chiara dei prossimi passi da percorrere.

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RAI PRAVEEN MAHAL

Proseguite la visita passando accanto al Shyam Daua Ki Kothi e al Rasaldar Ki Kothi, alle stalle dei cammelli e degli elefanti, per arrivare quindi al palazzo di Rai Praveen, la leggendaria concubina di Raja Indramani (1672-75) che fu vassallo dell’imperatore Mughal Aurangzeb. Secondo i racconti Rai Praveen fu una bellissima danzatrice, cantante, musicista e poetessa che risiedette in questo palazzo dove all’interno si conservano ancora magnifici dipinti. Bellissimi gli scorci sul Jehangir Mahal.

Rai Praveen Mahal (2) Rai Praveen Mahal - Orchha

Da qui è possibile continuare verso una serie di altri piccoli monumenti che troverete seguendo il sentiero di campagna, oltrepassata la porta Shahi Darwaja. Tra questi il Teen Dasiyon Ka Mahal, ovvero il “palazzo delle tre inservienti” e il piccolo Shiv Temple.

Teen Dasiyon Ka Mahal - Orchha

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CHATTURBHUJ TEMPLE

Forse l’edificio più appariscente per la verticalità delle sue forme e ben visibile da ogni angolo della cittadina. Costruito su una grandissima piattaforma di pietra e raggiungibile attraverso un’ampia scalinata, il tempio venne edificato per custodire l’immagine sacra di Rama trasportata ad Orchha dalla Regina Ganesha e che invece non fu più possibile spostare dal Ram Raja Temple, dove si trova collocata ancora tutt’oggi.

Chatturbhuj Temple - Orchha

Chatturbhuj Temple - Orchha

Unico nelle sue forme che vennero studiate da diversi architetti e i quali ne misero in rilievo le particolarità: pianta cruciforme come quella di una chiesa cristiana, assenza di fregi e ornamenti come l’interno di una moschea, presenza di una cella sacra e della sala per le preghiere come nei templi hindu. L’unica interpretazione logica sarebbe che la costruzione venne commissionata a degli architetti musulmani i quali inserirono caratteristiche tipiche dell’arte islamica in un tempio che venne ideato per ospitare una divinità indiana, dedicato alla figura di Vishnu con quattro braccia. Munitevi di una torcia per risalire la stretta scalinata che vi porterà all’altezza delle guglie, fino alla terrazza panoramica da cui vi garantirete una visuale a 360° su tutta Orchha.

Chatturbhuj Temple - Orchha

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LAKSHMINARAYAN TEMPLE

Dopo aver ripreso le forze con una meritata pausa pranzo, continuate la visita verso il Lakhsminarayan Temple che custodisce le pitture più raffinate e meglio conservate di tutta Orchha. Costruito nel 1622 e commissionato dallo stesso Bir Singh, il tempio, che nella struttura ricorda più l’aspetto di una fortezza è famoso per la particolarità delle pitture, le quali raccontano storie sia leggendarie che secolari.

Lakshminarayan Temple (3) Lakshminarayan Temple (4) Lakshminarayan Temple (6) Lakshminarayan Temple (7)

Episodi dei poemi epici, miti riguardanti varie divinità ma anche scene di battaglia con protagonisti i membri dell’esercito britannico, adornano le pareti e i soffitti dei corridoi interni di questo tempio, trasformando il luogo in un interessantissimo e curioso concentrato di opere artistiche dove perdersi per almeno un’ora, lasciando così trascorrere le ore più calde del giorno. Tornando verso il centro godetevi la magnifica vista panoramica.

Lakshminarayan Temple (9)

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BUNDELA CHHATRIS

Dirigetevi ora verso l’ultima meraviglia di Orchha, anch’essa inclusa nel biglietto cumulativo d’ingresso ai monumenti: sono i cenotafi dei membri della dinastia Bundela che si ergono fieri lungo la riva destra del fiume Betwa. Tra questi il più imponente  è quello di Bir Singh Deo ma ve ne sono ben altri quindici tra cui potrete intrattenervi fino all’ora di chiusura, aspettando il tramonto.

Centoafi Orchha

Un giorno ad Orchha comunque non basta, la cittadina deve essere vissuta con calma, bisogna avere il tempo di perdersi tra le casette colorate e tra i suoi bazar. Se siete quindi riusciti ad ultimare la visita ai suoi monumenti in un solo giorno, tenetevene almeno un altro per passeggiare tranquilli tra le sue vie, parlare con gli abitanti (i quali vorranno tutti invitarvi a casa loro) e magari, perché no, se il livello dell’acqua lo permette, godervi il fiume facendo water rafting.

Se state cercando una sistemazione super budget ma dignitosa (intendo con tanto di acqua bollente e lenzuola pulite!) andate alla Temple View Guest House, a due passi dal Ram Raja Temple. Io ho pagato 3 euro a notte! 🙂

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