Ho viaggiato per giorni respirando la polvere di un deserto ad alta quota pensando che in fondo alla strada potesse esserci solo la fine del mondo; immaginavo ad un certo punto un cartello con la scritta “spiacenti, la Terra finisce qui” e che da lì saremmo dovuti tornare indietro; ma la strada di fatto continuava, in direzione di un paradiso in Terra: Ladakh, mon amour!
Credetemi, ancora oggi, a distanza di tanti anni da quando ci misi piede per la prima volta (nel lontano 2009) e nonostante i vari (molti) paesi visitati nel frattempo – la maggior parte dei quali ovviamente meravigliosi – resto ancora della stessa opinione: il Ladakh, per bellezza e particolarità, li supera tutti ed è uno di quelli che più mi è rimasto nel cuore!
Situato nell’estremo nord dell’India ai confini con la Cina e con il Pakistan e amministrativamente incluso nello stato federato del Jammu & Kashmir (di cui ne costituisce un distretto), il Ladakh, incastonato e protetto tra le maestose catene montuose del Karakorum e dell’Himalaya in un territorio che si sviluppa dai 3.000 agli oltre 6.000 metri d’altezza, è uno tra gli angoli di mondo più suggestivi e surreali che io abbia mai visto.
Ad un passo dal cielo, in quel deserto d’alta quota punteggiato di cime innevate, è lì che si nascondono oasi di pace dal fascino immutato nel tempo. Piccoli mondi remoti in cui le principali scuole del buddhismo tibetano trovano rifugio ed ispirazione. Seppur a distanza di secoli dalla loro fondazione, qui si praticano ancora invariati i rituali della fede, all’interno di monasteri che incantano e stupiscono per la loro bellezza, quasi fossero una sorta di miraggio.
Viaggiare in Ladakh significa lasciarsi trasportare indietro nel tempo in un mondo sospeso tra la terra e il cielo e in una regione a maggioranza buddhista che costituiva un tempo la parte più occidentale del Tibet e luogo in cui ancora oggi le antiche tradizioni religiose vengono scrupolosamente tramandate da padre a figlio e da maestro a discepolo. Spiritualità e religiosità – lo noterete appena atterrati a Leh – influenzano ogni aspetto della vita quotidiana, lì dove il riconosciuto rispetto per la vita e per la terra vogliono essere di insegnamento non solo ai loro più prossimi vicini ma a tutti coloro che qui si recano in visita.
Il periodo migliore per un viaggio in Ladakh è quello che corrisponde all’incirca con la nostra estate, da maggio a settembre, quando lo scioglimento delle nevi permette la riapertura delle uniche strade carrozzabili che connettono Leh, il capoluogo, con il resto dell’India e più precisamente con Manali, in Himachal Pradesh, e con Srinagar, in Kashmir. I collegamenti aerei con Delhi rimangono attivi tutto l’anno ma un viaggio in Ladakh in inverno richiederebbe sicuramente maggiore pianificazione e adattamento.
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Leh, una piacevole cittadina di circa 27.000 abitanti che sorge ad un’altezza di 3.486 metri, costituisce la base e il luogo di partenza per tutti gli spostamenti. Cominciando da lì il modo più sensato per esplorare il Ladakh è quello di muoversi in direzione dei quattro punti cardinali, esplorandone le valli circostanti e superando gli altri passi ma facendo sempre ritorno al punto di partenza. In una dozzina di giorni è possibile scoprire non solo i punti principali, bensì anche alcuni degli angoli più nascosti di questa regione meravigliosa, sorta sulle sponde del leggendario fiume Indo, che diede nome alla nazione intera e che regala acqua ad una terra altrimenti arida.
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E sarà proprio risalendo il corso di questo fiume maestoso (che nasce in Tibet, attraversa l’India e finisce in Pakistan), che si parte allora in direzione sud-est, seguendone la riva sinistra, per arrivare inizialmente al luogo in cui sorge l’ultima dimora dei re ladakhi, costruita nel 1825 sul modello del palazzo-fortezza di Leh, ormai abbandonato. Si tratta dello Stok Khar, dove ancora oggi risiedono i discendenti della famiglia reale e al cui interno, nell’interessante museo, viene conservato un pezzo di storia del paese.
Proseguendo lungo la strada nella piana desolata, seguono poi il monastero di Matho e quindi già quello di Hemis, il più grande e ricco del Ladakh facente capo alla scuola dei monaci Drukpa, i cosiddetti “berretti rossi”, la cui filosofia trova fondamento nel pensiero degli yogi Tilopa, Naropa, Marpa e Milarepa, quest’ultimo il massimo poeta che il Tibet abbia mai avuto. Ogni anno, tra maggio e luglio, il monastero di Hemis si prepara ad ospitare il festival più famoso della regione himalayana. Pellegrini provenienti da ogni angolo del paese e vestiti degli abiti tradizionali migliori, si riuniscono nel cortile principale del Gompa per assistere ai due giorni di celebrazioni volti a rievocare la vita e gli insegnamenti di Guru Rimpoche nel giorno della sua nascita.
Conosciuto anche con il nome sanscrito di Padmasambhava (“il nato dal loto”), Guru Rimpoche è considerato dalla tradizione il fondatore del buddhismo tibetano e colui che ne ha permesso la diffusone. Due giorni di danze scandite dal ritmo intenso di cimbali, trombe e tamburi; un momento di ritrovo e di divertimento ma soprattutto un’occasione per il popolo di entrare in contatto con la vita e la parola del grande maestro, che gli abitanti percepiscono presente all’evento insieme a loro.
Un’importante opportunità per apprendere i contenuti essenziali del suo insegnamento attraverso uno strumento accessibile a tutti. La danza è infatti il mezzo offerto dai monaci residenti ai fedeli per aiutarli a percepire l’essenza della dottrina e dargli uno stimolo per approfondire in seguito la propria ricerca personale. In occasione di tale evento non sarà difficile farsi trasportare dal coinvolgimento collettivo. Sono tutti presenti, grandi e piccini, uomini e donne, monaci e laici, perché la sola partecipazione, si dice, predisporrà le condizioni karmiche che favoriranno il raggiungimento più veloce della liberazione, ovvero del Nirvana.
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Ripartendo di nuovo da Leh, sempre in direzione sud-est ma passando questa volta alla riva destra dell’Indo, si susseguono invece il palazzo di Shey, il monastero di Thiksey e quello di Stakna, il secondo dei quali rappresenta l’apice di straordinarietà per quel che riguarda l’architettura degli edifici monastici. Appartenente all’ordine riformato dei monaci Gelug-pa, ovvero dei “berretti gialli” (a cui fa capo Sua Santità il XIV Dalai Lama), il monastero custodisce un’immensa statua di Maitreya (il Buddha del futuro), un tempio dedicato a Tara (divinità femminile) e notevoli esempi di arte tantrica affrescati sulle pareti interne del Dukang, la sala della preghiera.
Ogni mattina intorno alle 7 i monaci del monastero di Thiksey richiamano i fedeli alla preghiera per mezzo di tradizionali strumenti musicali e si riuniscono per la recita dei versi sacri. Un momento davvero speciale a cui assistere in assorto silenzio, respirando quell’aria di spiritualità che rende il Ladakh un luogo così magico e speciale!
Proseguendo ora lungo la valle e prendendo la deviazione verso il Lago di Pangong – addentrandosi quindi nella valle di Sakti – ecco apparire il sorprendente monastero di Chemrey, costruito nei primi anni del XVII secolo e dipendente tuttora da quello di Hemis. A guardarlo non crederete ai vostri occhi per quanto è bello! Poco più in là, all’estremità settentrionale della valle, il monastero di Tagthog, appartenente all’ordine Nyingma e costruito nei pressi della grotta dove avrebbe meditato Guru Padmasambhava.
Superato il Passo di Chang, a 5.320 metri, arriviamo dunque al Lago di Pangong, in un’ambiente d’alta quota incredibile dove il turchese dell’acqua e quello del cielo, il bianco candido delle nuvole e i colori di una spettacolare natura desertica d’alta montagna si incontrano e si fondono: una visione fantastica, lì, ad un passo dal cielo, dove solo una mente divina potrebbe aver concepito cotanta inimmaginabile bellezza! Il Pangong Tso è un lago salato, quello di maggiore estensione in tutta la catena dell’Himalaya, sito ad un’altezza di circa 4.250 metri, lungo 134 km, largo al massimo 5 km ed incluso per 2/3 in territorio tibetano.
A fare a gara con il Lago di Pangong per bellezza vi è poi anche quello di Tso Moriri, sito a 4.600 metri d’altezza, 240 chilometri a sud-est di Leh e già sulla strada che collega il Ladakh a Manali. Il lago, così come quello di Pangong, può essere raggiunto solo nei mesi estivi e previo rilascio di un permesso che ne limita l’accesso su base annuale. Arrivare nella zona di entrambi i laghi significa attraversare regioni di immenso fascino dove da millenni le popolazioni nomadi vivono nel silenzio di paesaggi grandiosi e infiniti, dedite all’allevamento degli yak e delle capre pashmina.
Ma passiamo ora a nord di Leh per superare il leggendario passo del Khardung La, a 5.359 metri – il valico carrabile più alto del mondo – e raggiungiamo quindi le Valli dei fiumi Shyok e Nubra, un tempo remoti avamposti lungo la via della seta e dove, oltre ai monasteri di Diskit e Sumur, si nascondo luoghi di romitaggio e laghi incantati. Qui, al cospetto delle prime vette della catena del Karakorum, è possibile incontrare i famosi cammelli della Battriana. Dalle nevi perenni del Karakorum alle dune di sabbia della Val di Nubra quindi. Tutto in un giorno. Succede solo in Ladakh!
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Infine ad ovest di Leh, passato il monastero di Spituk e in direzione di quello di Lamayuru, incontriamo una profusione di luoghi sacri e capolavori d’arte indo-kashmira: il monastero di Phyang, quello di Likir e di Alchi, quest’ultimo risalente al X secolo e che conserva tre gigantesche statue rappresentanti Avalokiteshvara, Maitreya e Manjushri, la triade più famosa del lamaismo. Da Likir è possibile partire a piedi per un semplice itinerario di trekking della durata di tre giorni e due notti, passando dagli insediamenti di Yangthang ed Hemis Shukpachan e terminando quindi a Lamayuru.
Che dite, pensate che valga la pena di spiccare il volo verso il Ladakh? Sappiate che siete ancora in tempo! La bella stagione è più vicina di quanto sembri, la neve sugli alti passi si scioglierà presto e il Ladakh tornerà a connettersi al mondo dopo il lungo inverno. Come un fiore sboccia, un fiore raro del deserto: Ladakh, mon amour!
Qualche informazione sulla cucina…
Basata su prodotti cerealicoli e pochi vegetali la cucina del Ladakh, decisamente frugale e molto simile a quella tibetana, viene spesso affiancata dai piatti tipici della cucina indiana e kashmira.
I momo sono sicuramente il piatto più apprezzato dai palati occidentali: ravioli fatti di farina d’orzo, ripieni con carne o verdure e cotti al vapore, una ricetta tipica delle regioni himalayane. Una variante della stessa vuole che i momo possano anche essere fritti.
A Leh, un ottimo ristorante dove provarne un’ampia varietà è il Tibetan Kitchen, un locale pulito e confortevole e che vanta oltretutto un impeccabile servizio. Un ristorante dove ritornare più volte nell’arco del vostro soggiorno, a pranzo o a cena, sicuri che non ne rimarrete mai delusi!
Un altro piatto tipico della tradizione tibetana è la thukpa, una zuppa di noodles e verdure a cui possono essere aggiunti pezzettini di carne, solitamente pollo o montone, rendendola un sostanzioso piatto unico, perfetto come pasto invernale. Una variante che al posto dei noodles utilizza dei rettangolini di pasta appiattita è chiamata thenthuk.
Il pane locale, detto tagi, più spesso e croccante del chapati indiano seppur più piccolo, viene preparato sul tawa, un disco di ferro leggermente concavo che viene scaldato su pietra. Normalmente consumato a colazione può essere accompagnato con una tazza di tè salato, una bevanda che alla maggior parte di noi occidentali, risulta a dir poco disgustosa! Immaginatevi infatti una tazza di tè a cui viene aggiunto del burro di vacca o di yak e un pizzico di sale…in sostanza la sensazione sarà quella di deglutire un denso brodo di dado!
Tornando alle prelibatezze non mancate di fare scorta di albicocche che possono essere consumate fresche, secche o sotto forma di marmellata. Oltre alle coltivazioni di grano, orzo e piselli, l’altra grande produzione del Ladakh sono infatti gli alberi da frutta tra cui albicocche, mele e noci.
E a proposito di orzo quanti di voi non hanno mai sentito parlare della tsampa? E’ l’alimento base del pasto quotidiano ladakho. Si tratta di farina d’orzo tostato, un ingrediente altamente nutritivo che può essere consumato in vari modi: aggiunto ad una tazza di tè, con dello zucchero, con il latte o con lo yogurt, oppure consumata da sola cercando di buttarla direttamente in bocca…un’impresa che riuscirà solo ai più esperti!
… e altre info utili
Il fattore altitudine potrebbe costituire un fastidioso problema se non si lascia abbastanza tempo al nostro corpo di acclimatarsi. E’ consigliabile dunque soffermarsi qualche giorno nel capoluogo e dintorni prima di avventurarvi nel superamento degli alti passi. A Leh non vi mancheranno certo le cose da fare: dalla visita dell’antico palazzo a quella dei vari monasteri sparsi per la cittadina fino ad arrivare allo Shanti Stupa da dove potrete godere di meravigliose viste sulla valle sottostante.
Nel capoluogo inoltre non sarà neanche difficile incontrare occasioni per lo shopping: mercatini tibetani, negozi di artigianato locale e di meraviglie provenienti dall’India e dal Kashmir attireranno immancabilmente la vostra attenzione invogliandovi ad acquistare di tutto.
Chi non vorrebbe possedere almeno un thangka da appendere alla propria parete di casa? Trattasi di tele dipinte con colori vivaci, di veri e propri capolavori raffiguranti nel centro la divinità oggetto di devozione. Non solo dunque qualcosa di bello ma anche di significativo e spesso didattico, come è il caso dei thangka rappresentanti la cosiddetta “ruota della vita” che ha il compito di ricordare, a chi sceglie le gioie terrene, tutto l’orrore collegato al ciclo delle rinascite. Attraverso il simbolismo e l’iconografia questi dipinti vogliono aiutare l’uomo a prendere coscienza di questa legge ineluttabile e conferirgli i mezzi affinché egli possa essere artefice del proprio destino.
Ruote della preghiera, bandierine colorate, immagini sacre e oggettistica rituale, sono inoltre tutto ciò che è legato al culto e alla pratica buddhista e che fa sempre piacere portare a casa, in ricordo di questa terra spettacolare dove la spiritualità è parte integrante della vita quotidiana.
Per i più vanitosi invece, non si può ripartire dal Ladakh senza aver prima comprato almeno un piccolo gioiello o una fantastica pashmina proveniente dal Kashmir. La lana pashmina è una pregiatissima fibra tessile che si ricava dal pelo di una particolare specie di capra allevata sulla catena montuosa dell’Himalaya. Insieme a questo tipo di scialli, alcuni meravigliosamente decorati, ne troverete altri prodotti invece con la lana di yak, il bue tibetano, simbolo incontrastato di questa incantevole terra d’alta quota ai confini col cielo.
Foto credits: Marco Puccinelli, amico viaggiatore, toscano D.O.C.